Mentre rientravo, in autostrada, una famoso network diffondeva nell'etere vibrazioni di antica fattura, ma grande impatto, in cui guerra, morte, e potere, sono affrontati senza mezzi termini, e senza timore, ma solo con la forza della musica. A proposito di U.s.a. e di personaggi che poco hanno a che fare con la moralità e molto con il potere e la corruzione.. Buona serata.
Paul Hardcastle - 19 - Anno 1985
Idee in movimento - Arte - Libera Espressione - Musica - Letteratura - Poesia - Libertà - Creatività - Emozioni
venerdì 8 giugno 2007
Un pranzo da Mc Donald
Buongiorno a tutti amici. Oggi mi trovo a Pescara per lavoro, e, terminati i giri mattutini, ho preso la direzione del ristorante in cui sono solito recarmi, senza arrivarci, perchè lungo il percorso il rosso vivo di superMac mi ha catturato. Non ricordo esattamente quanti anni sono trascorsi dal mio ultimo pasto in un fast food, comunque non meno di cinque. Sono entrato, target medio 10-15 anni, musica da voltastomaco, gli inservienti tutti extracomunitari, orario continuato 10:00 - 02:00. Faccio fatica a restare perché l'ambiente é davvero poco accogliente, però sono le 13:30 ed ho fame, quindi mi inserisco nella fila piuttosto breve in compagnia di un video dell'onnipresente Tiziano Ferro in cui appare l'onniprersente Riccardo Scamarcio, ed ordino un Big Mac, patatine e coca media. Beh!.. Una cosa devo ammetterla, lo pseudocibo che ho degustato non era poi cosi' male, l'ultima esperienza era stata molto peggiore, traumatizzante direi. Al modico prezzo di € 5,50 ho appagato il mio palato e la mia psiche iperaffaticata. Certo un piatto di pasta però.. Abbraccio tutti e invito i miei guests a farsi vivi, ad Urbano vorrei dire solo che definire G.W. Bush un ca###ne é un gran bel complimento.
Oggi il brano che scelgo viene dal mare, anzi si chiama " Il mare".
Buon ascolto a tutti, ad Oz e Pirulo in particolare, questa vi piace, lo sò...
Oggi il brano che scelgo viene dal mare, anzi si chiama " Il mare".
Buon ascolto a tutti, ad Oz e Pirulo in particolare, questa vi piace, lo sò...
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Oggi c'è il delirio .... perchè deve arrivare il più gran ca###ne della storia ...
Scene di follia questa mattina nella capitale ....
Gente che bestemmia .... che litiga .... che arriva alle mani ....
Pizzardoni nel panico .... tassinari che fanno lo schifo ....
Conducenti dell'Atac che scendono dai mezzi ....
Mucchi di moto e motorini .. bloccati ai semafori ...
e milioni ... di Sbirri ... ovunque .. ad ogni angolo delle strade...
perchè tutto questo ? .. MAH !!!
Forse perchè sta arrivando "KRUSTY THE CLOW" ?????
giovedì 7 giugno 2007
Politica, Apartheid e grande musica: Hugh Masakela
Hugh Ramopolo Masekela nasce nel Sud Africa il 4 Aprile 1939. Sin dai primi anni della sua vita si dedica allo studio della tromba e, ancora poco più che bambino, è leader della Huddleston Jazz Band. A 17 anni si unisce alla Alfred Herbert's African Jazz Revue e inizia a farsi conoscere in ambito nazionale ed internazionale. Nel 1959 forma, insieme a Dollar Brand (più noto con il nome di Abdullah Ibrahim), la Jazz Epistles, la prima band band jazz africana ad incidere un album e fare concerti a Johannesburg e Cape Town.
Nel 1961, a causa della sempre crescenti brutailità dell’appartheid, Hugh Musakela va in esilio negli Stati Uniti. La sua notorietà come musicista cresce sempre più (in questi anni incide brani che scalano le classifiche statunitensi, come Up, Up and Away e Grazin' in the Grass).
I suoi brani musicali iniziano a toccare tematiche politiche e la sua figura inizia ad acquisire notorità anche come portatore di un ideale politico. Nel 1987, esce il suo Bring Him Back Home, che in breve tempo diventa l’inno del movimento legato a Nelson Mandela. Suona con musicisti di grosso calibro, quali Dizzy Gillespie, Paul Simon, Miriam Makeba (sua moglie).
Nel 2003 esce la sua autobiografia in cui descrive a fondo la sua amicizia con Nelson Mandela, le sue battaglie e la sua musica.
Oggi vive in Sud Africa, ma fa ancora tour in tutto il mondo.
Tra i pezzi più noti, Bring Him Back Home, Grazing in the Grass, e la toccante Coal Train (Stimela), che racconta la dura vita degli schiavi durante il lavoro nelle miniere di carbone in Africa.
La sua musica, tra jazz, radici africane, allegria, malinconia ed impegno politico, (come lui stesso ama ripetere) deve aiutare a perdonare, a vivere insieme, ma mai a dimenticare quanto successo in Sud Africa, affinché non si verifichi mai più una situazioni in cui un gruppo di uomini domini e ne sottometta un altro.
E se avete un po' di tempo, buona visione con Amandla
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Una testa 'motivata'
Ecco il mio 1' post, con l'autorizzazione del sig. Francesco. Le mie competenze maggiori (forse le uniche) sono calcio e musica. Iniziamo con un tributo all'autore delle 2 reti azzurre alla Lituania, Fabio Quagliarella. Vivaio granata, dopo aver girato mezza Italia ha avuto la consacrazione proprio quest'anno. Ha una storia particolare che va brevemente raccontata. Si tratta di un'attaccante che ha sempre avuto una certa idiosincrasia per il gol (una ventina in 5 anni)dovuta ad un blocco mentale (una vera e propria paura di far figuracce) finche' quest'anno alla Samp lo hanno affidato ad un motivatore (Head-Trainer) per sbloccarlo un po' e convincerlo che si puo' segnare. Guardando i gol viene un dubbio, avranno esagerato?
Canne e cannoni (e con questo vado via ... )
ell’Europa orientale il problema maggiore sono le droghe chimiche, quelle di sintesi. Balcani e Cecenia ne sono pieni. Il Muro è caduto. Ma non i laboratori illegali per la produzione delle anfetamine. Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa a Mosca per il suo impegno nel raccontare le verità nascoste dei conflitti russi, ha più volte sollevato il problema. Ha anche scritto di cittadini ceceni che vanno in giro con le tasche cucite, per evitare che i soldati russi li arrestino infilandogli la droga nei pantaloni.
Ma le storie più dure vengono dall’Iraq dilaniato dalla guerra civile, sconvolto da una spirale di violenza che ha lasciato intatte pochissime famiglie. Tamam Abdul-Kadhim, 35 anni, nel 2004 ha vissuto un bombardamento nel centro di Baghdad. Era la prima volta che assisteva a un bagno di sangue. Un avvenimento che ha cambiato per sempre la sua vita. La notte non chiudeva occhio. Allora ha iniziato a usare sedativi, diventandone dipendente. L’Iraq di oggi è pieno di persone nelle sue stesse condizioni. Uomini e donne imprigionati in una quotidianità di morte e terrore. Chi ha potuto è andato via, si è trasferito in Giordania o in Europa. Chi è rimasto cerca sempre di più nelle droghe l’unica possibilità di evadere dalla realtà.
I consumatori appartengono a tutte le classi sociali: insegnanti, militari, poliziotti e disperati. Usano di tutto, dagli psicofarmaci all’eroina. Non essendo un Paese produttore, l’Iraq non si era mai dovuto confrontare con problemi di droga, e ai tempi di Saddam gli unici problemi di dipendenza riguardavano l’alcol. Oggi a causa degli attentati degli estremisti contro i locali pubblici è diventato difficile trovare alcolici. Ma il Paese è ormai pieno di droga. Farmaci contenenti anfetamina e codeina (un derivato medico dell’oppio) si trovano a prezzi bassissimi ad ogni angolo di strada, sui banchi dei mercati e persino nei bar. Dove un tè da 400 dinari (10 centesimi di euro) lo servono direttamente con gli psicofarmaci sciolti dentro. Il problema è che spesso i clienti neanche sanno cosa assumono. Esiste un commercio di farmaci destinati a persone che, anche quando le medicine sono nelle loro confezioni, non sanno leggere dosi e indicazioni. Scritte in inglese, con il marchio del ministero della Salute iracheno e la dicitura «not for sale» (quindi non vendibile senza ricetta medica). Non di rado sono aiuti esteri, dotazioni delle ong. Per strada, scatola e foglietto illustrativo neanche ci sono. Sui banchi dei mercati le pillole si trovano sfuse. Trenta per 500 dinari, medicine di cui nessuno conosce la data di scadenza e che magari sono sotto il sole da settimane. Anche il canale ufficiale di distribuzione, le farmacie, è diviso in due: ci sono quelle che vendono i farmaci di classe A (i più potenti) anche senza ricetta, e quelle a cui non piace vendere un certo tipo di psicofarmaci. Ma di solito anche lì, descritto il sintomo, si ottiene ciò che si chiede. «Se finisci in galera una delle prime cose che ti chiedono i secondini è se hai bisogno di una pillola: prezzo 250 dinari», scriveva di recente una lettrice al direttore di un quotidiano di Baghdad. Campanello d’allarme per comprendere quanto il loro uso sia diffuso nel Paese, con il silenzio del governo, della polizia locale e delle forze di occupazione.
All’uso degli psicofarmaci si è poi aggiunto quello di eroina e cocaina. «Gli iracheni stanno consumando sostanze illecite come mai prima d’ora. Stimiamo che oggi siano circa 5.000 le persone che usano droghe nel sud del Paese. Nel 2004 erano circa 1.500», ha affermato recentemente in un’intervista all’agenzia di stampa irachena Irin il dottor Kamel Ali del Programma di prevenzione contro i narcotici del ministero della Salute. «In tutto il Paese potrebbero essere 10.000». Un recente rapporto dell’agenzia Ghodse evidenzia come «negli ospedali di Baghdad e di tutto il Paese si è registrato un notevole aumento di overdose, per droghe e psicofarmaci». Molti arrivano in ospedale direttamente in ambulanza, una volta perduti i sensi, poiché si spostano solo per lo stretto necessario e sono ancora molto diffidenti verso le istituzioni. Inoltre in Iraq c’è un solo centro che si occupa di dipendenze: l’ospedale psichiatrico di Baghdad.
L’arrivo delle nuove droghe è dovuto al sostanziale fallimento del controllo dei labili confini iracheni. Soprattutto quello tra Iran e Iraq, dove transitano ingenti quantitativi di droga, che stanno facendo esplodere il consumo in tutto il Medio Oriente. Un confine lungo 1.200 chilometri che le forze di occupazione e quelle irachene non riescono a controllare. Molti analisti sostengono che il problema sia da imputare al dilagare della corruzione. Il governo ha fatto di tutto per fermare il flusso di droghe, inviando migliaia di poliziotti in più lungo il confine e chiedendo aiuto alle forze ucraine e polacche di stanza vicino a Batra e Zurabatia. «In passato l’Iraq aveva migliaia di checkpoint e poliziotti lungo il confine, ma oggi, con tutti i problemi del Paese, all’area viene data una scarsa attenzione» ha dichiarato Mahmud Uthman, membro del Consiglio di governo. Ma i risultati ottenuti dall’esecutivo sono stati irrisori. Anche le due città sante di Kerbala e Najaf, nel sud del Paese, hanno indossato la maglia nera dell’abuso. Lungo le polverose strade di queste due città ormai proliferano i narcotrafficanti afgani e iraniani. E l’applicazione della pena di morte anche per il traffico di stupefacenti non è servita da deterrente. I sequestri si moltiplicano, ma traffico e consumo non si arrestano. Gli psicofarmaci passano dal confine giordano, l’eroina da quello iraniano e la cocaina attraverso i Paesi del Corno d’Africa. Il tema della droga ormai non è più un tabù, nella patriarcale e conservatrice società irachena. È diventato un argomento da bar. Uno psichiatra del ministero della Salute, che vuole rimanere anonimo, sostiene che il problema è che l’Iraq non ha strutture adeguate per combattere la crisi: «È un bene che finalmente si parli del problema, ma la cronica mancanza di sicurezza, l’assenza di dati e il fatto che tutto questo sia rimasto a lungo nell’ombra, non ci aiuta a risolverlo. Baghdad conta più di cinque milioni di abitanti, ma noi siamo in grado di monitorare solo una piccola parte della popolazione. E fuori dalla capitale è tutto ancora più difficile».
Se a Baghdad la situazione è preoccupante, in Afghanistan è allarmante. «Un milione di afgani si droga» tuonava nel rapporto del 2005 l’Ufficio per la droga e il crimine delle Nazioni Unite, diretto dal 2002 dall’italiano Antonio Maria Costa. Le siringhe sono arrivate anche in Afghanistan. Una novità assoluta per il Paese. Un’occidentalizzazione del consumo senza precedenti. Mentre il mondo viene inondato da eroina afgana, il consumo esplode dal confine con Turkmenistan e Uzbekistan e nelle campagne fino a Kabul. I derivati dell’oppio, mai usati negli anni del regime e soprattutto mai prodotti dagli afgani, dal 2001, anno di inizio dell’ultimo conflitto, stanno avendo una rapida diffusione tra la popolazione. Chi non ha accesso a queste sostanze usa psicofarmaci e pure benzina. Il resto del mondo osserva il presente afgano con uno sguardo preoccupato anche verso il futuro. L’enorme quantità di oppio disponibile nel Paese, aggiunta alla corruzione delle istituzioni, rendono al momento impossibile arginare la crescente attività di produzione e raffinazione. Situazione che è destinata a fare schizzare ancora di più verso l’alto la domanda interna, di oppio e eroina.
Dopo la caduta dei talebani sono stati creati programmi di trattamento. Il ministero non sa quanti vi ricorrano, e non ci sono indicazioni sui programmi terapeutici. Quello che si sa è che questi centri nella maggior parte dei casi non possono fare affidamento su farmaci sostitutivi per le astinenze. Usano le corde. Legano le persone ai letti. La loro nascita e le lunghe liste di attesa confermano la vastità del fenomeno delle dipendenze nel Paese. Una nazione che produce più del 90 per cento dell’oppio mondiale, si trova di colpo ad essere anche un grande consumatore. Nella sola Kabul in due anni gli eroinomani sono più che raddoppiati. E il dottor Mohammad Zafar del Programma di riduzione della domanda, del ministero per il Controllo dei narcotici, denuncia come la comunità internazionale si sia interessata solo alla produzione dell’oppio afgano e non al boom del suo consumo in patria. Da un chilo di oppio si producono 100 grammi di eroina pura. Se sotto i talebani la raffinazione avveniva fuori dai confini nazionali (Triangolo d’oro, Pakistan e Iran in testa), oggi i laboratori sono dentro il Paese. Producono dai 70 ai 100 chili di eroina al giorno. Sono sulle colline a sud-est di Jalabad (a ridosso del confine con il Pakistan) e nei distretti di Acheen e Adal Khel (provincia di Nangahar). Nella sola area di Sangeen, secondo ufficiali britannici, ce ne sono più di 150. L’Afghanistan è diventato un Paese dove guardando dalle colline le vallate di alcune province, l’estensione della coltivazione di oppio è paragonabile a quella dei vigneti in molte regioni italiane. E proprio come avviene in Italia per la stagione della vendemmia, in primavera la raccolta attira braccianti da ogni parte del Paese.
In Afghanistan la raccolta dell’oppio è già iniziata. Le grandi piogge primaverili lasciano credere che nei rapporti Onu dell’anno prossimo vedremo un nuovo record di produzione. Nella sola provincia di Helmand si coltiva il 40 per cento di tutto il papavero afgano, con una produzione di 150 chilogrammi a ettaro. L’aumento della produzione ha già fatto scendere i prezzi, passati dai 100 dollari dell’anno scorso agli 80/90 di oggi. I talebani controllano gran parte dell’area e gli scontri e i bombardamenti con le forze Isaf sono quotidiani. Due tentativi di distruzione delle piantagioni non hanno dato i risultati sperati. Da poco, su pressione delle Nazioni Unite, ne è iniziato un terzo. Ma gli ostacoli da superare sono due. Primo. Se da un lato le Nazioni Unite stimano che il 50 per cento del Pil afgano è rappresentato dall’oppio, l’economia del Paese è interamente controllata dall’esterno. Il presidente Karzai viene da tutti definito il «sindaco di Kabul» e il contrabbando di droga aumenta sempre di più. Anche per la difficoltà, come in Iraq, di controllare i 5.800 chilometri di confini. Secondo. La corruzione e la connivenza del potere sia con i talebani che con i narcotrafficanti. «Rappresentanti del governo e signori della guerra sono pesantemente coinvolti nella produzione e nel traffico illecito di oppio e stanno trasformando il nostro Paese in un narco-Stato» ha dichiarato il ministro dell’Interno al quotidiano Kabul Times. Aggiungendo che, pur non potendo fare nomi, il suo ministero «ha raccolto prove sufficienti per dimostrare che funzionari del governo, compresi ufficiali dell’esercito e della polizia, sono implicati nel narcotraffico».
Conoscono nomi e cognomi, sia di chi è implicato direttamente che di chi offre protezione in cambio di denaro, ma «solo in pochi casi siamo riusciti a intervenire e arrestarli». Operazioni che probabilmente vengono condotte solo contro personaggi diventati scomodi e pesci piccoli. Inoltre, precisa il ministro, «a Kabul stiamo arrestando moltissimi trafficanti, ma questo avviene solo per un motivo: perché lo smercio di oppio grezzo o lavorato sta assumendo dimensioni tali da non riuscire più a rimanere invisibile». E se alcuni ritengono che la soluzione sia nella conversione della produzione di oppio da illegale a legale, per la produzione di morfina per le terapie del dolore, il capo dell’Unodc Costa la cestina subito come «irrealistica», spiegando che «sul mercato illegale rende tre volte di più, e in ogni caso con la produzione dello scorso anno il mondo starebbe bene per cinque anni». Continueremo quindi a vedere in tutto il mondo e ancora per molto gli effetti di questa rigogliosa agricoltura.
di Alessandro De Pascale
LEFT - AVVENIMENTI
Badu Badu
Per Oz e la sua anima cool, very cool .. non ho tempo per scrivere ne per leggere i Post ed i relativi commenti porca putt.. mi stò facendo la fotocopiatrice.. mentre ascolto del buon sound.. a dopo.. Buon ascolto
Erykah badu - Nsj festival 07.06
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M 'é finito il toner...
Allora, alle prese ancora con le fotocopie, considerate che IO ODIO LE FOTOCOPIE.. mi é appena finito il toner, e devo farne ancora 3.500. E' ufficiale, Pirulo, sei un malsano jettatore .. mannaggia a te..
Cypress Hill Insane in the Membrane
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mercoledì 6 giugno 2007
Andai dentro la notte illuminata
Ho scritto questo articolo un po' di tempo fa: è stato pubblicato sul Secolo d'Italia venerdì 6 aprile, il libro era appena uscito (romanzo che mi è piaciuto moltissimo). Lo ripropongo qui e adesso perchè l'autore, Giancarlo Liviano D'Arcangelo - un ragazzo di grande talento e sicuro futuro - ha appena dato vita ad un blog che vi invito a visitare: Notte illuminata.
Dall’ascesa al tonfo in poco più di un lustro, la parabola dei reality show volge al basso. Sembra trascorso un secolo da quando questo format fece la sua trionfale irruzione nei palinsesti, salutato come la strepitosa novità che avrebbe modernizzato la televisione. Una vera e propria rivoluzione annunciata con enfasi. «Alla lunga il cambiamento si vedrà. La tv parruccona anni ’80 è vecchia, non attira nessuno. Si andrà sempre più verso il reality show, c’è bisogno di qualcosa che ci emozioni, che sembri vero». Le parole, gorgoglianti di entusiasmo e risalenti all’ormai lontano 2001, sono di Daria Bignardi, rigorosa conduttrice delle prime due edizioni del “Grande Fratello”.Il cambiamento, in effetti, si è visto. E non si è fatto neanche attendere troppo. Ma non è stato in meglio. Tanto da far saltare sulla sedia persino un indecisionista come Claudio Petruccioli. Il presidente del cda Rai non ha mostrato dubbi: la causa principale dell’imbarbarimento della nostra televisione, la madre di tutte le volgarità che ne caratterizzano buona parte della programmazione, è proprio il reality. E quel che ne consegue: eserciti di star improvvisate - presunti famosi, nullafacenti, aspiranti veline e selvaggi cowboy della porta accanto - che da anni occupano militarmente ogni spazio televisivo. Rivoluzionario finché si vuole, ma il più delle volte di una noia mortale. La ricetta di Petruccioli è la purga: eliminare i reality per «evitare ricadute anche su altri programmi, con ospiti, riprese e personaggi che ne trasferiscono impronta e stereotipi, diffondendo conformismo e iterazione». La conclusione non lascia scampo: «Se la scelta dell’alt ai reality verrà fatta, sarà possibile migliorare la qualità dei ‘contenitori’, soprattutto quelli pomeridiani». Insomma, se fino ad ora una comparsata non s’è negata a nessuno, popolando i programmi di opinionisti improbabili e starlette spigliate, c’è il rischio di tornare a fare televisione di qualità. O, perlomeno, trasmissioni capaci di fare audience. Perché i numeri parlano chiaro, ammesso che i telespettatori possano essere considerati tali. Salvo eccezioni, i reality fanno flop. Tra uno sbadiglio e l’altro, lo zapping ci ha portato altrove, nonostante la buona volontà di conduttori ipervitaminici dall’apprezzabile energia. Svanita la spontaneità delle prime esperienze, i reality hanno smesso di raccontare la società e il fenomeno sembra destinato a soccombere. Di qui l’amletico dilemma: la fase propulsiva è definitivamente alle spalle o si tratta piuttosto di ridurne dosi e reinventarne contenuti? Sta di fatto che a contendersi gli Oscar del piccolo schermo - in palio nel Rose d’Or Festival, che si terrà a Lucerna dal 5 al 9 maggio - tra le dieci nomination indicate dalla giuria, non c’è un solo prodotto italiano nella categoria reality. Forse perché è più economico adattare format altrui piuttosto che crearne di originali, ma uno sforzo andrebbe fatto, se si vuole offrire una chance al genere.Reggono solo le corazzate:“GF” e “Isola dei famosi”. E c’è da scommettere che anche “Un, due, tre, stalla”, il nuovo show di canale 5 condotto da Barbara D’Urso, partito con risultati poco incoraggianti, nelle prossime settimane vedrà impennarsi lo share. Perché? E’ stato affidato alle cure di Maria De Filippi, sacerdotessa della televisione italiana, capace di trasformare in oro quel che tocca, l’unica a non essere neanche sfiorata dalla crisi.Solo una persona, anzi, un “personaggio” potrebbe fare meglio di lei: Alvin Nathan Muggeridge, il trentatreenne anchorman che ha condotto il più grande reality show mai concepito da mente umana, il “Golden Death”, la morte dorata in diretta, lo spettacolo televisivo del secolo, che la sera di Natale ha tenuto inchiodati davanti allo schermo un miliardo di telespettatori in tutto il mondo. No, non l’avete perso. Non l’avete (ancora) letto. Perché Alvin è solo il geniale frutto della fantasia di un giovane scrittore esordiente, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, il cui primo romanzo - in libreria il prossimo 14 aprile (Andai, dentro la notte illuminata, Pequod, euro 15) - racconta senza intellettualismi e moralismi e con una scrittura visionaria, paradossale e godibile, il salto nel vuoto cui sembra destinato in maniera irreversibile il mondo della televisione. Salto nel vuoto, dal traliccio più alto del Golden Gate di San Francisco, che aspetta anche Alex, il giovane protagonista (da VillaFranca, trasposizione letteraria della pugliese Martina Franca), insieme agli altri concorrenti: «Sei prototipi di sconfitti, reclutati tra miliardi di sconfitti, disposti a buttarsi in mare in diretta televisiva interplanetaria ed è questo il miracolo di misticismo postmoderno che sta per realizzarsi nella semitotalità dei salotti intercontinentali». Sei uomini che rimettono il loro destino nelle mani del televoto, pronti a morire per quattrocentomila dollari.«Questa è gente che vuole passare alla storia» annuncia Alvin presentandoli al pubblico. E l’unico accesso possibile per chi non ha né arte né parte, è la tv. Ne è consapevole anche Alex che - nonostante sia l’unico ad avere una vita e una storia ordinaria, gli altri sono un texano condannato alla sedia elettrica, una coppia di sposi ossessionati dalla tv, un evirato e un malato di aids - è «pronto a morire per rinascere nell’immaginario delle generazioni future. Sarò più alto, sublime, saggio e bello come un dio greco». Perché la tv ha il potere magico di modificare la realtà nel momento stesso in cui dovrebbe testimoniarla, a partire dalle persone che in essa si affacciano.Testimonial dell’evento tre personaggi “reali” magistralmente ridisegnati da D’Arcangelo: un Saddam Hussein bonario e sornione, applaudito dal pubblico nella sua veste di ospite televisivo normalizzato, una Céline Dion elegantissima e soprattutto lei, Paris Hilton, che fingerà di suicidarsi lanciandosi per prima dal Golden Gate. «Il salto della Hilton doveva servire per convogliare sullo show l’attenzione del pianeta. Sarebbe stata l’apriscatole dell’interesse mondiale».Su tutti campeggiano la figura e il pensiero di Alvin, «il figlio di Dio o forse Dio in persona» e la sua incrollabile fede nel potere della televisione:«La telecrazia è la vera forma di governo delle società avanzate. Niente è più democratico della tv. Raggiunge chiunque, nessuno escluso. Tutela le minoranze. Più un nucleo sociale è indifeso, più la televisione offre protezione. Parifica ricchi e poveri. In tv tutti fanno le stesse cose e hanno gli stessi desideri. Uguaglianza nei diritti, equa distribuzione e welfare. Non sono questi i capisaldi della democrazia?»Alvin, a modo suo, è un patriota, un soldato catodico: «La guerra fredda è stata vinta non grazie alla bomba atomica. Che stronzata. Ce l’avevano anche i russi e la Cina. Il socialismo reale su questo pianeta è stato debellato da Fonzi. I telefilm hanno demolito il comunismo. Sul piano del sex appeal non c’era paragone. Ricordi meglio l’approccio storico-materialista di Marx o i telefilm? Sono stati distribuiti in tutto il mondo. Si è creato una specie di effetto domino. Hanno divulgato un modello culturale comprensibile a tutti. Niente progresso o cazzate varie come grandi sistemi. A tutti è stata venduta l’illusione che fosse semplicissimo conseguire il minimo indispensabile per essere felici. Persino un ciccione ributtante, proprietario di una misera ferramenta, come papà Cunningham poteva permettersi una moglie graziosa e devota, un benessere decoroso, dei figli responsabili e una familiare da quindicimila dollari».E anche il razzismo è stato sconfitto dalla televisione: «E’ stato abbattuto quando si è capito che i negri erano un bel mercato per beni di prima e seconda necessità. Erano già addomesticati a desiderare lo stile di vita dei bianchi. Lasciarli poveri era del tutto antieconomico. Il boom dell’integrazione razziale è Arnold. Negri che potevano vivere come califfi con bianchi straricchi che li adottavano come figli propri. E tutto grazie al liberalismo occidentale, alla solidarietà che consegue alla ricchezza generalizzata e ai benefici del libero mercato». L’ultima grande potenza mondiale – sentenzia Alvin - sono gli States, ma non per le ragioni comunemente addotte. «Perché hanno Elvis Presley e Marilyn Monroe. Con la loro morte hanno creato la percezione ipersimbolica dell’eterna giovinezza, la stessa che cercate voi concorrenti».Scansiamo un equivoco, quello di D’Arcangelo non è un “instant book” sui reality, scritto frettolosamente per cavalcare l’onda dell’attualità, ma rappresenta, semmai, una divertente quanto mirata allegoria del mondo della televisione nel suo complesso, un lavoro lungo e meticoloso. Classe ’77, Giancarlo, oltre a dimostrarsi un romanziere di talento, è un addetto ai lavori. Studioso di mass media, ha lavorato a lungo in tv.A Giancarlo chiediamo quanto ci sia di autobiografico nel libro? E ci spiega: «Molto, ma non in senso stretto, è la biografia delle mie piccole ossessioni, c’è soprattutto il mio punto di vista sul materialismo della realtà e il rapporto con l’irrealtà indotta dei reality, determinata da scelte di casting studiate affinché i partecipanti possano interagire e sviluppare dinamiche precostituite. Quello che è più preoccupante, però, è l’omologazione verso il basso del linguaggio televisivo in senso lato».E, spontaneamente, ci viene anche da chiedere se è davvero così terribile vivere a Martina Franca, tanto da votarsi al suicidio televisivo?«Se è per questo Martina - spiega D'Arcangelo - è una delle prime città nella classifica europea dei suicidi – ride – ma è l’amore per il mio territorio e il dispiacere per le occasioni perse, e non sto parlando della mancata apertura di un McDonalds, ad avermi fatto scrivere questo libro».
Ma c'è anche qualcos'altro da chiedergli: ti senti uno scrittore impegnato o un narratore puro? Te lo chiedo perché sembra una questione di importanza fondamentale per la maggior parte dei critici…Lui confessa: «Vorrei essere un corsaro. Non è importante se le storie sono inventate o nascono dal vissuto degli autori, il più delle volte sono un mix, l’importante è non perdere di vista l’attualità».
Ma c'è anche qualcos'altro da chiedergli: ti senti uno scrittore impegnato o un narratore puro? Te lo chiedo perché sembra una questione di importanza fondamentale per la maggior parte dei critici…Lui confessa: «Vorrei essere un corsaro. Non è importante se le storie sono inventate o nascono dal vissuto degli autori, il più delle volte sono un mix, l’importante è non perdere di vista l’attualità».
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Winter
Sono mitragliato da mille pensieri che arrivano da ogni dove.... Come se non bastasse oggi mi tocca decidere a se vendere o meno la mia automobilina. Oggi infatti mi si è materializzata davanti una bambolina che si è innamorata della mia macchina (non ha voluto neanche vederle le altre 35 che ho sul piazzale), quindi mi chiedo cosa fare? Non sò, intanto fuori piove, fa freddo, e nella mia testa è inverno.
I BAMBINI DI OGGI GIOCANO COSI'...
Cavolo non puoi mettere un bambino di 8 anni di fronte ad un 50 pollici con dolby digital ed una PS3. Crescerà sicuramente in malomodo.
Pensate ad un mio futuro figlio che ascolta i Pan Sonic, gioca con la PS3, ed utilizza un Mac per suonare...Potrebbe diventare un malato come me.....No, No. Non è possibile questa cosa....
Buon Pomerggio ... pioverà o non pioverà per 15 munuti anche oggi ?
"Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci.....allora sono convinto o no che il mondo continua ad esserci?....c'è ancora?.....sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso..........Allora, a che punto ero?"
Good Morning Ghosts
Buongiorno amici. Oggi voglio cominciare con una dedica a Pirulo, confidando che torni ad inserire qulche perla delle sue, ed a Nico, che si trova molto lontano, in Venezuela, inserendo questo video, girato dalle sue parti, che ci avvicina al suo sport preferito, il Free Climbing, prima che partisse. Un saluto ad Oz che ci osserva silenzioso, a Forrest che non ha argomenti da postare ( spero tu abbia chiarito.. ) a Fabio Tyson che sembra star meglio, a Miasma, Gioggio ed Alesanta che stanno a Formentera, a Benag e alla sua terra ( .. la partenza per Arbatax é vicina ), a Roberto ed alla sua bella selezione musicale, un in bocca al lupa Roby A.A. per il suo nuovo articolo e un bacione alla mia Paoletta che stà comodamente sdraiata su di una barca lungo le coste siciliane, a lavorare. Infine un grazie ai numerosi visitatori che quotidianamente ci vengono a trovare. Welcome, have a nice day..
Patagonia Video: Sonnie Trotter Climbs First Free Ascent
Patagonia Video: Sonnie Trotter Climbs First Free Ascent
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martedì 5 giugno 2007
Undici minuti
Coelho Paulo - Undici minuti
Editore Bompiani (collana Romanzi Bompiani)
Prezzo € 16,00
Dati 2003, 260 p., rilegato
"Undici minuti" racconta la storia di Maria, una giovane ragazza brasiliana che, seguendo il miraggio di una vita più facile, si trasferisce da Rio de Janeiro in Europa, a Ginevra. Qui, dopo il tentativo di lavorare come modella, comincia a esercitare la prostituzione e, dagli incontri con i suoi clienti, sviluppa la sua particolare conoscenza del mondo. Gli undici minuti del titolo, il limitato arco di tempo che Maria dedica a ciascun uomo, diventano quindi lo strumento attraverso il quale la ragazza entra in contatto con l'anima degli sconosciuti che incontra. E sarà proprio uno di questi uomini, il pittore Ralf Hart, ad aprirle le porte di una nuova consapevolezza.
Nel suo nuovo romanzo Paulo Coelho continua la sua meditazione sulla vita, sull'animo umano e sulla spiritualità che è da sempre al centro dei suoi libri. Questa volta le sue riflessioni ruotano attorno al tema della sessualità, considerata uno strumento di conoscenza ed esplorazione di sé. Lo scrittore brasiliano, divenuto famoso grazie all'Alchimista , Sulla sponda del fiume Piedra mi sono seduta e ho pianto , Il Cammino di Santiago e altri romanzi di successo internazionale, affronta senza reticenze il tema del sesso in tutti i suoi risvolti, dalla masturbazione al sadomasochismo, dall'orgasmo al "punto G", mantenendosi però sempre fedele a quell'ansia di ricerca spirituale che lo ha reso caro ai lettori di tutto il mondo.
Tutto comincia con il sogno di una giovane donna brasiliana, Maria, che, dopo avere conosciuto un impresario teatrale sulla spiaggia di Rio de Janeiro, accetta di trasferirsi a Ginevra per intraprendere la carriera di ballerina di samba. Purtroppo non riuscirà a realizzare il suo progetto e finirà presto in un night club di Rue de Berne, il quartiere a luci rosse di Ginevra. Con l'ingenuo cinismo di chi non ha ancora conosciuto l'amore, Maria eserciterà la prostituzione non solo per sopravvivere e recuperare il denaro necessario a tornare in Brasile e comprare un'azienda agricola, ma anche per conoscere appieno il mondo e l'anima delle persone. «Il mio obiettivo è comprendere l'amore», scrive la protagonista tra le pagine del suo diario: cercherà di farlo sforzandosi di cogliere l'essenza del sentimento attraverso la lente di fugaci appuntamenti che la sua attività le impone. Ma solo l'incontro con un uomo speciale, un artista di nome Ralf Hart, riuscirà a farle vivere e comprendere ciò che conta davvero…
Esperto narratore e fine indagatore dei segreti dell'anima, Paulo Coelho, riesce ad affrontare anche i temi più impegnativi senza rinunciare a una narrazione scorrevole e di piacevole lettura. La passione, la magia del desiderio, i piaceri, i misteri, la spiritualità e la sacralità dell'amore sono i veri protagonisti di questo suo primo romanzo erotico; una storia di grande intensità emotiva che invita alla riflessione senza mai perdere la sua freschezza e la sua spontaneità.
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Oggi stò cosi
Oggi sono triste ed ho poche parole. Mi esprimo con queste vibrazioni che rappresentano esattamente il mio stato d'animo. Buona giornata.
Nick Drake - Day is Done
Note Biografiche
Nick Drake nasce in Birmania il 19 giugno 1948 da genitori inglesi. Eredita dalla madre la passione per la musica e, mentre si trova al college, acquista una chitarra e inizia a suonarla, sviluppando una tecnica di fingerpicking assolutamente singolare. Viene presentato da Ashley Hutchings dei Fairport Convention al produttore Joe Boyd e dal lì iniziano le sessioni per le registrazioni del suo primo disco Five Leaves Left. Il disco, uscito nel 1969 non ottiene un grande successo di vendita, anche perché Nick è molto schivo e preferisce limitare al minimo i concerti. Nel 1970 esce Bryter Layter, un disco tendente ad atmosfere jazzate. Anche questo non ha molto successo. Lo stato d'animo di Nick peggiora, inizia a soffrire di uno stato di depressione dal quale non riesce a scuotersi. Nel 1972 incide il suo ultimo album, quello più sofferto e scarno: Pink Moon. Il 25 novembre 1974 la madre sale in camera per svegliarlo e lo trova morto, disteso nel letto. E' un'overdose di Tryptizol, un antidepressivo. Si pensa ad un suicidio, anche se non esiste una prova effettiva che lo sia stato veramente. Con la sua morte si aprono le porte del successo (come lui stesso profetizzava in Fruit Tree) e la musica di Nick, anno dopo anno, diventa sempre più diffusa e conosciuta.
Nick Drake - Day is Done
Note Biografiche
Nick Drake nasce in Birmania il 19 giugno 1948 da genitori inglesi. Eredita dalla madre la passione per la musica e, mentre si trova al college, acquista una chitarra e inizia a suonarla, sviluppando una tecnica di fingerpicking assolutamente singolare. Viene presentato da Ashley Hutchings dei Fairport Convention al produttore Joe Boyd e dal lì iniziano le sessioni per le registrazioni del suo primo disco Five Leaves Left. Il disco, uscito nel 1969 non ottiene un grande successo di vendita, anche perché Nick è molto schivo e preferisce limitare al minimo i concerti. Nel 1970 esce Bryter Layter, un disco tendente ad atmosfere jazzate. Anche questo non ha molto successo. Lo stato d'animo di Nick peggiora, inizia a soffrire di uno stato di depressione dal quale non riesce a scuotersi. Nel 1972 incide il suo ultimo album, quello più sofferto e scarno: Pink Moon. Il 25 novembre 1974 la madre sale in camera per svegliarlo e lo trova morto, disteso nel letto. E' un'overdose di Tryptizol, un antidepressivo. Si pensa ad un suicidio, anche se non esiste una prova effettiva che lo sia stato veramente. Con la sua morte si aprono le porte del successo (come lui stesso profetizzava in Fruit Tree) e la musica di Nick, anno dopo anno, diventa sempre più diffusa e conosciuta.
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Gioggio e le sue foto: mail del 1 - 06 - 2007
Ciao Frà. Allora: sono andata su ninailrospo@gmail.com ma nonostante i tuoi 4 inviti ad entrare nel blog se ci clicco dentro mi dice che c'è un errore nell'invito. Boh...le cose tecnologiche non fanno per me, o meglio, si rifiutano di avere che fare con me. Bello No? Intanto ti mando qualche foto dei miei vaggi, qualche foto di e con Ninni( Alesanta ) e altre cose improbabili ( tipo un AVEZZANO scovato tra Palinuro e Napoli ) ...che forse èl'unica pubblicabile.
Le altre sono per te (quelle di e con Ninni sono pubblicabili) Bacio
Le altre sono per te (quelle di e con Ninni sono pubblicabili) Bacio
Sandaliotin…Sandalion… Ichnussa… Sardegna insomma
per conto di Benag
Il mare, l’interno, la costa, le usanze, i profumi ed i colori, l’ospitalità, le Genti; tutto questo, e non solo, affascinano e rendono unica la mia Isola. Ma c’è qualcosa che la rende ancor più particolare : la sua lingua. “Limba”, per noi sardi.
Con questo e successivi post vorrei porgere, a Voi lettori di questo raffinato blog, alcuni elementi di “Limba sarda”. Senza supponenza e senza la presunzione di “insegnare”. Solo con l’intendimento di dividere con Voi quelle emozioni che questa Terra sa dare, a chi la sa scoprire ed amare. E chissà…salutarci anche in sardo, quando c’incontriamo. Fazio degli Uberti (Dittamondo, III Libro), quando tratta della Sardegna, scrive :
“Io viddi che mi parve meraviglia
una gente ch’alcuno non intende
Né essi sanno quel ch’altri bisbiglia”
Vorrei introdurvi subito in questo mondo, con alcuni passi (incipit e fine) di una Poesia di Franceschino Satta (Nuoro,1919-2001). “Frantzischinu” Satta è uno dei massimi Poeti in limba. A Lui si rivolse Max Leopold Wagner, tedesco, il più autorevole maestro della linguistica sarda, per affinare i suoi studi sulla limba.
Massimo Pittau, eminente studioso ed Autore di un vocabolario sardo-italiano, di Franceschino Satta ha scritto : “… notevolissima la padronanza della grammatica e del lessico sardo…”. Far riferimento al Satta, considerato il vero erede de “Su Montanaru” (al secolo Antioco Casula), è impadronirsi della limba e dei suoi suoni.
A Zubanne Battista
Ninna – nanna
"Pro tene, fizu, jaju hat imbentau
Una cantone alligra, pilibrunda,
durche, bella che sole, caritunda
chei sa luna chi nascit in su chelu.
Est una cantonedda latte e mele,
de pilios tinta, tottu linus d’oro...
Dormi, columbu , dormi, sonnios d’oro !
Arcos de chelu, riso de cossolu
T’accumpanzen serenos in su bolu
De s’issonnossente banzicu ‘e su coro”.
Franceschino Satta
Su quest'autore tornerò nei prossimi post.
--------
Altre Poesie in limba, sempre per scoprirne la musicalità. La prima è del citato “Su Montanaru” (Antioco Casula, da Desulo) , tratta da “Sos cantigos de Ennargentu” (Cagliari, 1922).
“Fiera e ruzza in mesu a sos castanzos
seculares, ses posta o bidda mia;
attaccada a sos usos de una ia,
generosa, ospitale a sos istranzos”.
Quest’altra è del nuorese Salvatore Cabras, tratta da “Su Gologone, cantos de Barbagia” (Biella, 1933).
“Bennidu a crescher sa malinconia
Su risignolu si es pesadu in cantu”
Per finire, Vi segnalo questo “mutettu”, d’anonimo. Per precisare, i “Mutos” e i “Mutettus” sono canti estemporanei, il più delle volte, e sono proposti in gare poetiche nella forma a “cuncordu”. I “mutos e i mutettus, sono inconfondibili per la netta separazione tra la prima strofa, costituita sempre da un tema libero, e la seconda, che viceversa evidenzia l’intenzione o il sentimento.
“Bella vigu mmurisca
A ispinas de oru.
Tottu s’arruga è ttrista
Candu non passa coru”
Con il prossimo post, l’origine, gli articoli, i pronomi, i verbi essere e avere, qualche frase particolare, comprese quelle già note.
Un saluto e…grassias.
Benag
Il mare, l’interno, la costa, le usanze, i profumi ed i colori, l’ospitalità, le Genti; tutto questo, e non solo, affascinano e rendono unica la mia Isola. Ma c’è qualcosa che la rende ancor più particolare : la sua lingua. “Limba”, per noi sardi.
Con questo e successivi post vorrei porgere, a Voi lettori di questo raffinato blog, alcuni elementi di “Limba sarda”. Senza supponenza e senza la presunzione di “insegnare”. Solo con l’intendimento di dividere con Voi quelle emozioni che questa Terra sa dare, a chi la sa scoprire ed amare. E chissà…salutarci anche in sardo, quando c’incontriamo. Fazio degli Uberti (Dittamondo, III Libro), quando tratta della Sardegna, scrive :
“Io viddi che mi parve meraviglia
una gente ch’alcuno non intende
Né essi sanno quel ch’altri bisbiglia”
Vorrei introdurvi subito in questo mondo, con alcuni passi (incipit e fine) di una Poesia di Franceschino Satta (Nuoro,1919-2001). “Frantzischinu” Satta è uno dei massimi Poeti in limba. A Lui si rivolse Max Leopold Wagner, tedesco, il più autorevole maestro della linguistica sarda, per affinare i suoi studi sulla limba.
Massimo Pittau, eminente studioso ed Autore di un vocabolario sardo-italiano, di Franceschino Satta ha scritto : “… notevolissima la padronanza della grammatica e del lessico sardo…”. Far riferimento al Satta, considerato il vero erede de “Su Montanaru” (al secolo Antioco Casula), è impadronirsi della limba e dei suoi suoni.
A Zubanne Battista
Ninna – nanna
"Pro tene, fizu, jaju hat imbentau
Una cantone alligra, pilibrunda,
durche, bella che sole, caritunda
chei sa luna chi nascit in su chelu.
Est una cantonedda latte e mele,
de pilios tinta, tottu linus d’oro...
Dormi, columbu , dormi, sonnios d’oro !
Arcos de chelu, riso de cossolu
T’accumpanzen serenos in su bolu
De s’issonnossente banzicu ‘e su coro”.
Franceschino Satta
Su quest'autore tornerò nei prossimi post.
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Altre Poesie in limba, sempre per scoprirne la musicalità. La prima è del citato “Su Montanaru” (Antioco Casula, da Desulo) , tratta da “Sos cantigos de Ennargentu” (Cagliari, 1922).
“Fiera e ruzza in mesu a sos castanzos
seculares, ses posta o bidda mia;
attaccada a sos usos de una ia,
generosa, ospitale a sos istranzos”.
Quest’altra è del nuorese Salvatore Cabras, tratta da “Su Gologone, cantos de Barbagia” (Biella, 1933).
“Bennidu a crescher sa malinconia
Su risignolu si es pesadu in cantu”
Per finire, Vi segnalo questo “mutettu”, d’anonimo. Per precisare, i “Mutos” e i “Mutettus” sono canti estemporanei, il più delle volte, e sono proposti in gare poetiche nella forma a “cuncordu”. I “mutos e i mutettus, sono inconfondibili per la netta separazione tra la prima strofa, costituita sempre da un tema libero, e la seconda, che viceversa evidenzia l’intenzione o il sentimento.
“Bella vigu mmurisca
A ispinas de oru.
Tottu s’arruga è ttrista
Candu non passa coru”
Con il prossimo post, l’origine, gli articoli, i pronomi, i verbi essere e avere, qualche frase particolare, comprese quelle già note.
Un saluto e…grassias.
Benag
lunedì 4 giugno 2007
Un gran bel Lunedi'..
Finalmente sono tornato notando con piacere che anche in mia assenza il Blog vive di anime pensanti e creative. Questa mattina mi sono svegliato col pensiero di essere qui tra voi dopo diversi giorni di assenza, quindi esco da casa sulla Nomentana per ripartire in direzione Az, e mi accorgo che l'auto non parte. Dopo diversi tentativi ho la conferma che la batteria é a terra quindi provvedo a recarmi a piedi al meccanico più vicino ( 3 km.. ), prendo la batteria nuova, la sostituiamo e procedo lentamente verso la Piovra (G.R.A.). Mi immetto nell'inferno metallico e accelero per accorciare i tempi di arrivo a lavoro, già clamorosamente sballati. L'auto non supera i 30 km orari, trenta, avete capito bene, praticamente fermo, rischiando due incidenti in poco meno di 2 uscite. Tir che suonano all'impazzata, auto che mi mandano a fare in c.., il panico totale. Niente, più di trenta all'ora non si procede. Esco alla 13 ( Tiburtina ) e cerco dal mio telefono cellulare su internet il numero del meccanico con il quale ho sostituito la batteria, ma sono di fronte ad un passo carrabile e devo spostarmi perchè un calmissimo automobilista romano medio mi manda a cagare senza neanche chiedere spiegazioni sulla mia sosta, quindi riparto e mi accorgo che l'auto sembra sbloccata. Ci provo, mi immetto di nuovo nel raccordo e ragiungo la bretella autostradale, valutando finalmente che la sfiga con me oggi ha terminato il suo dovere. Arrivo al casello di Az e, nonostante la coda insolita per il ticket, sono sereno. La coda insolita é lunga, troppo lunga.. Clacson di nuovo impazziti e un furgone della TNT Traco che rimane per più di quindici minuti fermo al casello. La macchina mangiascontrini ha deciso di scioperare oggi, quindi retromarcia di gruppo (circa dieci auto ). Mi astengo dal commento perchè totalmente privo di forze ma devo ammettere che anche stavolta Murphy ha ragione... " Se qualcosa può andare peggio lo farà " ( Le teorie dell'ingegnere da " Le Leggi di Murphy " - Ediz. Longanesi ). Sono in Libreria alle undici passate e poco dopo arriva un cliente. E' una persona di circa cinquantanni, lavora in fabbrica, ed ha una gran cultura, una mente viva e poliedrica. Legge Heidegger, Galimberti, testi di fisica quantistica, mattoni improponibili di filosofia della fisica e sociologia politica. Soffre di neuropatia diabetica da circa quattro anni, ed ha difficoltà di deambulazione e dolori atroci sugli arti inferiori e superiori. Mi dice che si é comprato un paio di scarpe nuove chiedendomi se mi piacciono, perché lui non riesce a vederle, stà diventando cieco a causa di una errata terapia oculare fatta da qualche pseudospecialista locale che ha peggiorato in maniera irreversibile i suoi problemi visivi legati alla malattia. Pietro, questo é il suo nome, non ha amici, se non me e Stefano, ed i libri, tanti libri. La sua droga sono le righe, non quelle bianche sempre più presenti nei nostri uffici, nelle nostre case, ed ora anche vaporizzate nell'aria che respiriamo ( ..leggere articolo su esame chimico dell'aria di Roma, reperibile attraverso qualsiasi motore di ricerca internet, contenente significative tracce di cocaina, ). Pietro non ha più la sua aria, ed é questo a rendermi infelice. Dobbiamo valorizzare la nostra normalità, spesso ci soffermiamo a sprecare la nostra ira su banali incidenti di percorso, ma noi siamo fortunati, credetemi... Un abbraccio a tutti
The verve - Lucky man
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domenica 3 giugno 2007
Kapuscinski, demolitore di luoghi comuni
Da bambino sognava di diventare il portiere della nazionale polacca di calcio ed invece, per via di una poesia (brutta, a suo dire) inviata ad un giornale, è diventato il fuoriclasse per eccellenza dei corrispondenti esteri, la punta più avanzata: l’inviato di guerra. Un mestiere complesso e pericoloso, affrontato con passione pari alla consapevolezza: «Una libera scelta, nessuno ti obbliga. Nel mondo muoiono oltre cento giornalisti l’anno, molti dei colleghi della mia generazione, con i quali lavoravo, sono morti, mentre io sono ancora vivo». Era. Anche se è difficile parlarne al passato, tanto vivi, oltre che estremamente attuali, rimangono i suoi libri, l’ultimo dei quali - piccolo ma prezioso, raccoglie il materiale di sei conferenze - è arrivato da pochi giorni in libreria, L’altro (euro 6, Feltrinelli).
Ryszard Kapuscinski è morto a Varsavia pochi mesi fa, lo scorso 23 gennaio, a causa delle complicazioni seguite ad un intervento chirurgico, all’età di settantacinque anni (era nato nel ’32 a Pinsk, nella Polonia Orientale, oggi Bielorussia). Prima di allora era sfuggito alla morte in centinaia di occasioni, forse perché l’aveva frequentata sin da bambino: «La Seconda guerra mondiale è cominciata quando avevo sette anni ed è durata per tutta la mia infanzia. Quando si possiede una conoscenza così istintiva della guerra, è più facile cavarsela sgattaiolando tra le linee del fronte». E non si può dire che non sia andato a cercarsela: in oltre quaranta anni di viaggi in circa cento paesi del mondo, è stato testimone diretto di ventisette “guerre” tra colpi di Stato e rivoluzioni, dall’Asia all’Africa (Ebano), dall’Iran della rivoluzione del ’79 (raccontata in Shah-in-shah) all’America Latina: «Io voglio solo stare in prima linea, sul fronte degli eventi e, sul momento, non penso al rischio o al fatto che potrei rimetterci la pelle». Non perché fosse un temerario o un avventuriero. Di statura e corporatura media, d’indole mite e tollerante, non aveva certo il fisico né tanto meno la baldanza strafottente di un Indiana Jones. Di fronte all’altro non tirava fuori la pistola, ma una penna a sfera e il taccuino. Neanche il registratore, perché crea una distanza con l’interlocutore, alimenta la diffidenza. Una volta arrivato a destinazione, la sua prima preoccupazione era confondersi con il luogo, parlare con gli abitanti, studiare e cercarne di comprenderne la cultura, evitando accuratamente incontri istituzionali, versioni ufficiali e voci di palazzo, fonti quasi esclusive per buona parte dei colleghi che considerano il viaggio «una specie di missione diplomatica e non sono particolarmente interessati a come viva la gente in un dato paese: li interessano solo l’alta politica, i governi, gli attori della scena internazionale. Appena possibile, si isolano dalla realtà».
«Il vero reporter non abita all’Hilton - scrive in Autoritratto di un reporter - dorme dove dormono i personaggi dei suoi racconti, mangia e beve quello che mangiano e bevono loro. E’ l’unico modo per scrivere qualcosa di decente. Per essere accettato, deve imparare a vivere tra la gente, deve essere una persona umile e dotata di empatia». E prima di raggiungere la celebrità mondiale, tanto da essere salutato dal Washington Post come «il più famoso corrispondente di guerra della sua generazione» e accostato per il suo talento ai più grandi nomi della letteratura - «il Bruce Chatwin dell’est» - il suo è stato un lungo apprendistato. Ha appena vent’anni quando, senza conoscere una sola parola di inglese e aver mai lasciato prima il suo Paese, viene catapultato in India. Unico viatico: una vecchia edizione - censurata dal regime socialista - delle Storie di Erodoto, lo storico dell’antica Grecia che ha scelto come mentore (In viaggio con Erodoto è il titolo della sua biografia).
Il suo amore per il giornalismo nasce dalla curiosità per il mondo, ma anche dal desiderio di evasione da un territorio che l’occupazione sovietica ha trasformato in un luogo del terrore (Imperium è probabilmente il più bel saggio-reportage mai scritto sul disfacimento dell’impero sovietico). Descrive l’orrore entrare nelle case e nelle scuole, i genitori dei compagni di classe scomparire uno a uno, così come il maestro, che lo chiama dal carro merci con cui lo stanno deportando in Siberia. Il padre, destinato all’eliminazione in quanto funzionario dello Stato polacco, riesce a nascondersi. Ryzard a “fuggire”.
«Mi occupavo dei problemi del Terzo Mondo, campo in cui le pressioni ideologiche da parte del potere erano molto minori di quelle esercitate, per esempio, su un corrispondente di Mosca o di Praga». Approda alla Pap, l’agenzia polacca di stampa, dove lavorerà per oltre venti anni. Tale lavoro è «il prezzo da pagare per poter scrivere dei libri», per raccontare «il mondo ricchissimo, affascinante che scoprivo viaggiando di paese in paese e di continente in continente». Un patrimonio di conoscenze che non poteva essere racchiuso in scarni dispacci giornalistici e lanci di agenzia, anche se il tempo per scrivere è sempre poco: «Mi rendo conto che dovrei scrivere di più. E invece so che se in Africa accadesse qualcosa di importante, come una guerra in Rhodesia, partirei su due piedi senza neanche finire la frase». Gli unici “souvenir” dei suoi viaggi sono i libri, a tonnellate: di ritorno dalla Nigeria lo seguono solo una cassa di libri, un paio di jeans e una padella. Esempio poco seguito dal giornalismo ideologicamente orientato di casa nostra, popolato da telepredicatori dall’ego ipertrofico, giornalisti per caso e “specialisti” in instant-book affidati a volenterosi ghost writer, che rimangono sulla superficie degli avvenimenti.
«Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni sessanta - ripeteva con una punta di civetteria - sono rimasto solo io. Gli altri sono diventati direttori di reti televisive, di emittenti radiofoniche, di case editrici e di quotidiani. Sono diventati stanziali». Altri ancora, aggiungiamo noi, hanno capitalizzato la popolarità per farsi eleggere nelle istituzioni, per erigere un monumento alla propria vanità. Kapuscinski no: «Niente titoli, niente cariche, niente funzioni». Il suo giornalismo è improntato ad una scelta etica, quella di dare voce a chi non ce l’ha, un giornalismo che definiva “intenzionale”: «Vale a dire quello che si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento».
Più esattamente definisce la sua professione come quella di un “traduttore”. «Non da una lingua all’altra, ma da una cultura a un’altra. L’importante sarebbe fare in modo che tra le culture si creassero rapporti non di dipendenza e subordinazione, ma di intesa e collaborazione. Solo così può esserci una speranza che, nella nostra famiglia umana, l’intesa e la benevolenza prendano il sopravvento sulle ostilità e i conflitti. Anch’io nel mio piccolo vorrei contribuirvi, ed è questa la ragione per cui scrivo». Dimostra a tutti noi europei «che abbiamo una mentalità molto eurocentrica, che l’Europa, o meglio una sua parte, non è la sola cosa esistente al mondo». Ma, a differenza di molti suoi colleghi di sinistra, Kapuscinski non auspica l’affermazione di una cultura globale, non formula la “hit parade” delle culture - «non esiste una gerarchia delle culture» - né tanto meno individua negli Stati Uniti il comodo capro espiatorio di tutti i mali del mondo.
Da cattolico, sostiene l’importanza delle identità: «Lo sradicamento della propria cultura costa caro. Per questo occorre avere chiaro il senso della propria identità, della sua forza e del suo valore. Solo allora l’uomo può liberamente confrontarsi con una cultura diversa». Il mondo in cui stiamo entrando - sostiene nel libro appena arrivato in libreria - è «il Pianeta della Grande Occasione». E sbagliano i media occidentali «a rappresentare tutto ciò che non è occidentale come una minaccia: A Oriente siamo minacciati dalla mafia. A sud, dai fondamentalismi. In Africa da africani dementi che si trucidano a vicenda. Dall’Asia e dall’America Latina incombono i narcotrafficanti». Un caparbio, tenace demolitore di luoghi comuni, questo era ed è Ryszard Kapuscinski.
Ryszard Kapuscinski è morto a Varsavia pochi mesi fa, lo scorso 23 gennaio, a causa delle complicazioni seguite ad un intervento chirurgico, all’età di settantacinque anni (era nato nel ’32 a Pinsk, nella Polonia Orientale, oggi Bielorussia). Prima di allora era sfuggito alla morte in centinaia di occasioni, forse perché l’aveva frequentata sin da bambino: «La Seconda guerra mondiale è cominciata quando avevo sette anni ed è durata per tutta la mia infanzia. Quando si possiede una conoscenza così istintiva della guerra, è più facile cavarsela sgattaiolando tra le linee del fronte». E non si può dire che non sia andato a cercarsela: in oltre quaranta anni di viaggi in circa cento paesi del mondo, è stato testimone diretto di ventisette “guerre” tra colpi di Stato e rivoluzioni, dall’Asia all’Africa (Ebano), dall’Iran della rivoluzione del ’79 (raccontata in Shah-in-shah) all’America Latina: «Io voglio solo stare in prima linea, sul fronte degli eventi e, sul momento, non penso al rischio o al fatto che potrei rimetterci la pelle». Non perché fosse un temerario o un avventuriero. Di statura e corporatura media, d’indole mite e tollerante, non aveva certo il fisico né tanto meno la baldanza strafottente di un Indiana Jones. Di fronte all’altro non tirava fuori la pistola, ma una penna a sfera e il taccuino. Neanche il registratore, perché crea una distanza con l’interlocutore, alimenta la diffidenza. Una volta arrivato a destinazione, la sua prima preoccupazione era confondersi con il luogo, parlare con gli abitanti, studiare e cercarne di comprenderne la cultura, evitando accuratamente incontri istituzionali, versioni ufficiali e voci di palazzo, fonti quasi esclusive per buona parte dei colleghi che considerano il viaggio «una specie di missione diplomatica e non sono particolarmente interessati a come viva la gente in un dato paese: li interessano solo l’alta politica, i governi, gli attori della scena internazionale. Appena possibile, si isolano dalla realtà».
«Il vero reporter non abita all’Hilton - scrive in Autoritratto di un reporter - dorme dove dormono i personaggi dei suoi racconti, mangia e beve quello che mangiano e bevono loro. E’ l’unico modo per scrivere qualcosa di decente. Per essere accettato, deve imparare a vivere tra la gente, deve essere una persona umile e dotata di empatia». E prima di raggiungere la celebrità mondiale, tanto da essere salutato dal Washington Post come «il più famoso corrispondente di guerra della sua generazione» e accostato per il suo talento ai più grandi nomi della letteratura - «il Bruce Chatwin dell’est» - il suo è stato un lungo apprendistato. Ha appena vent’anni quando, senza conoscere una sola parola di inglese e aver mai lasciato prima il suo Paese, viene catapultato in India. Unico viatico: una vecchia edizione - censurata dal regime socialista - delle Storie di Erodoto, lo storico dell’antica Grecia che ha scelto come mentore (In viaggio con Erodoto è il titolo della sua biografia).
Il suo amore per il giornalismo nasce dalla curiosità per il mondo, ma anche dal desiderio di evasione da un territorio che l’occupazione sovietica ha trasformato in un luogo del terrore (Imperium è probabilmente il più bel saggio-reportage mai scritto sul disfacimento dell’impero sovietico). Descrive l’orrore entrare nelle case e nelle scuole, i genitori dei compagni di classe scomparire uno a uno, così come il maestro, che lo chiama dal carro merci con cui lo stanno deportando in Siberia. Il padre, destinato all’eliminazione in quanto funzionario dello Stato polacco, riesce a nascondersi. Ryzard a “fuggire”.
«Mi occupavo dei problemi del Terzo Mondo, campo in cui le pressioni ideologiche da parte del potere erano molto minori di quelle esercitate, per esempio, su un corrispondente di Mosca o di Praga». Approda alla Pap, l’agenzia polacca di stampa, dove lavorerà per oltre venti anni. Tale lavoro è «il prezzo da pagare per poter scrivere dei libri», per raccontare «il mondo ricchissimo, affascinante che scoprivo viaggiando di paese in paese e di continente in continente». Un patrimonio di conoscenze che non poteva essere racchiuso in scarni dispacci giornalistici e lanci di agenzia, anche se il tempo per scrivere è sempre poco: «Mi rendo conto che dovrei scrivere di più. E invece so che se in Africa accadesse qualcosa di importante, come una guerra in Rhodesia, partirei su due piedi senza neanche finire la frase». Gli unici “souvenir” dei suoi viaggi sono i libri, a tonnellate: di ritorno dalla Nigeria lo seguono solo una cassa di libri, un paio di jeans e una padella. Esempio poco seguito dal giornalismo ideologicamente orientato di casa nostra, popolato da telepredicatori dall’ego ipertrofico, giornalisti per caso e “specialisti” in instant-book affidati a volenterosi ghost writer, che rimangono sulla superficie degli avvenimenti.
«Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni sessanta - ripeteva con una punta di civetteria - sono rimasto solo io. Gli altri sono diventati direttori di reti televisive, di emittenti radiofoniche, di case editrici e di quotidiani. Sono diventati stanziali». Altri ancora, aggiungiamo noi, hanno capitalizzato la popolarità per farsi eleggere nelle istituzioni, per erigere un monumento alla propria vanità. Kapuscinski no: «Niente titoli, niente cariche, niente funzioni». Il suo giornalismo è improntato ad una scelta etica, quella di dare voce a chi non ce l’ha, un giornalismo che definiva “intenzionale”: «Vale a dire quello che si dà uno scopo e che mira a produrre una qualche forma di cambiamento».
Più esattamente definisce la sua professione come quella di un “traduttore”. «Non da una lingua all’altra, ma da una cultura a un’altra. L’importante sarebbe fare in modo che tra le culture si creassero rapporti non di dipendenza e subordinazione, ma di intesa e collaborazione. Solo così può esserci una speranza che, nella nostra famiglia umana, l’intesa e la benevolenza prendano il sopravvento sulle ostilità e i conflitti. Anch’io nel mio piccolo vorrei contribuirvi, ed è questa la ragione per cui scrivo». Dimostra a tutti noi europei «che abbiamo una mentalità molto eurocentrica, che l’Europa, o meglio una sua parte, non è la sola cosa esistente al mondo». Ma, a differenza di molti suoi colleghi di sinistra, Kapuscinski non auspica l’affermazione di una cultura globale, non formula la “hit parade” delle culture - «non esiste una gerarchia delle culture» - né tanto meno individua negli Stati Uniti il comodo capro espiatorio di tutti i mali del mondo.
Da cattolico, sostiene l’importanza delle identità: «Lo sradicamento della propria cultura costa caro. Per questo occorre avere chiaro il senso della propria identità, della sua forza e del suo valore. Solo allora l’uomo può liberamente confrontarsi con una cultura diversa». Il mondo in cui stiamo entrando - sostiene nel libro appena arrivato in libreria - è «il Pianeta della Grande Occasione». E sbagliano i media occidentali «a rappresentare tutto ciò che non è occidentale come una minaccia: A Oriente siamo minacciati dalla mafia. A sud, dai fondamentalismi. In Africa da africani dementi che si trucidano a vicenda. Dall’Asia e dall’America Latina incombono i narcotrafficanti». Un caparbio, tenace demolitore di luoghi comuni, questo era ed è Ryszard Kapuscinski.
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