Buongiorno a tutti amici. Su segnalazione di Ruben vi regalo questo show.. Absolutely.. Oz Pirulo e Forrest. Purtroppo ho poco tempo, ma penso possa bastare cosi' per stamattina.. baci e abbracci..
Music for one apartment and six drummers..
Idee in movimento - Arte - Libera Espressione - Musica - Letteratura - Poesia - Libertà - Creatività - Emozioni
venerdì 15 giugno 2007
Thank God It's Friday
RuPaul and Martha Wash - It's Raining Men
Buonagiornata a tutti .... Un modo simpatico e diverso per svegliarsi ...
A chi è andato lungo perchè ieri sera ha fatto tardi ... (visti gli imprevisti serali)
A chi è arrivato puntuale in ufficio come sempre ...
A chi è in ufficio a vendere auto ....
A chi è nel suo negozio a vendere libri ....
A chi è il saletta di montaggio o nella ridente SAXA'S Valley o in giro per l'Italia...
A chi è in tintoria e non vede l'ora di andare a prendere la sua auto su cui ha appena montato l'impianto ...
A chi non vede l'ora che arrivi stasera ...
Buonagiornata a tutti .... Un modo simpatico e diverso per svegliarsi ...
A chi è andato lungo perchè ieri sera ha fatto tardi ... (visti gli imprevisti serali)
A chi è arrivato puntuale in ufficio come sempre ...
A chi è in ufficio a vendere auto ....
A chi è nel suo negozio a vendere libri ....
A chi è il saletta di montaggio o nella ridente SAXA'S Valley o in giro per l'Italia...
A chi è in tintoria e non vede l'ora di andare a prendere la sua auto su cui ha appena montato l'impianto ...
A chi non vede l'ora che arrivi stasera ...
giovedì 14 giugno 2007
Effetto Gigi .. Camoscio in gabbia
Oggi Blog deserto, sarà l'effetto D'Alessio del nostro sempre più enigmatico Oz, saranno le mie foto un pò "forti", fatto sta che oggi il nostro piccolo mondo é stato abitato da sconosciuti.. Attendo Post di Miasma, Fabio Tyson, e Gioggio ed Alesanta, ringrazio Pirulo per aver animato la giornata e saluto Banag che si trova ed Eboli per assegnare il premio Marco Josto Agus.
Vito Taccone ex "Camoscio d'Abruzzo", fresco candidato sindaco ad Avezzano é andato a trascorrere un soggiorno vacanza di qualche mese nella casa circondariale di San Nicola. Va bene cosi', io sono stato fuori per lavoro e sono tornato solo ora, quindi saluti e baci a tutti, con dedica live..
Seal "Kiss From A Rose" live in Warszawa 18.10.2006
Vito Taccone ex "Camoscio d'Abruzzo", fresco candidato sindaco ad Avezzano é andato a trascorrere un soggiorno vacanza di qualche mese nella casa circondariale di San Nicola. Va bene cosi', io sono stato fuori per lavoro e sono tornato solo ora, quindi saluti e baci a tutti, con dedica live..
Seal "Kiss From A Rose" live in Warszawa 18.10.2006
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mercoledì 13 giugno 2007
....Rieducational Channel
Oggi sono stato intervistato da Rai Educational Channel (quella vera). Non riuscivo a smettere di pensare a lei....Vulvia, su rieducational cianel! E se si fosse presentato Alberto Angela?? Magia della satira....
Montalban: né maestro, né ideologo
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
«La mia vita ha uno scopo: educare il buon marxista alle contraddizioni che albergano nella sua anima». Lei si definisce marxista? «Sì, ma della sezione gastronomica». In che senso? «C’è una frase di Marx che mi piace: si conosce un paese quando si è mangiato il suo pane e si è bevuto il suo vino». Di chi parliamo? Di Manuel Vásquez Montalbán, Manolo per gli amici, giornalista e scrittore cult, formidabile affabulatore di storie attraversate da una dolorosa quanto umoristica vena di indignazione, sempre temperata dall’autoironia, per ogni forma di ingiustizia. O di Pepe Carvalho, il detective gastronomo, il personaggio che lo ha reso famoso in tutto il mondo? I due si assomigliano, si confondono, si sfottono, si usano l’un l’altro, vanno d’accordo solo quando siedono al ristorante o si mettono all’opera: davanti ai fornelli, posseduti dalla passione per il cibo, capaci di elaborare ricette raffinate e saporite.
Diciamolo subito. Montalbán era comunista e antifranchista. A modo suo, però. Un modo che - non sembri un paradosso - può piacere anche a certa destra. Perché sta dalla parte dei perdenti. C'è una sua passione per la "nobiltà della sconfitta". Tanto che nel suo romanzo Il premio (del '96) non ha nessun problema a inserire come esergo una frase di Julius Evola.
Iniziamo dall’epilogo, come accade nei gialli tradizionali con il ritrovamento della vittima. La morte di Montalbán - nel 2003 - sembra il finale di un romanzo: colto da un malore all’aeroporto di Bangkok, appena tornato da una conferenza letteraria tenuta in Australia, mentre aspetta il volo che l’avrebbe riportato nella sua Barcellona. Aveva 64 anni, spesi a difendere con determinazione la sua idea di una letteratura autenticamente popolare centrata sulla sensualità, poggiata su una precisa teoria: che attraverso il soddisfacimento dei piaceri individuali si possa contribuire al progresso civile. ««La sordidezza del romanzo poliziesco non esclude di puntare sui piaceri. Se James Bond dimostrava un’ottima conoscenza dello champagne, non capivo perché mai Carvalho dovesse rinunciare a spiegarsi la vita mediante le sue passioni gastronomiche, come cuoco e come consumatore, rivendicando obiettivi di giustizia sociale insieme a quelli di giustizia individuale, capitolo di cui fanno parte i piaceri». Entrando subito in rotta di collisione con la sinistra spagnola, editoriale, culturale e politica. «La gastronomia era un tabù della sinistra. Veniva ritenuta una debolezza borghese e come tale disprezzata. Poi è successo che, anche in Italia, mi pare, sono diventati tutti dei gourmet, dei palati scelti». Chissà che non si riferisse a D’Alema, novello Vissani. Ma torniamo a Montalbán. Quando si rivolse ad una casa editrice «progressista» per proporre un giallo, si vide sbattere la porta in faccia. «Mi consigliarono di rivolgermi ad una di destra». La sua reputazione di intellettuale di sinistra, conquistata negli anni giovanili, vacillò pericolosamente. «La critica disse che stavo rovinando una promettente carriera, che la mia era un’operazione commerciale. Mentre avevo solo tentato di divertirmi e di scrollarmi di dosso il peso di una letteratura entrata in un vicolo cieco. Del resto, cinema e canzoni si sono sempre alimentati di letteratura. E’ tempo che la letteratura si alimenti di cinema e canzoni. I programmatori del divorzio tra cultura d’élite e cultura di massa moriranno sotto il peso della massificazione della cultura».
Una delle prime opere del lungo ciclo di Carvalho, Assassinio al Comitato centrale (Sellerio, ’84), fa inorridire Santiago Carrello, segretario del partito comunista spagnolo. «Dal suo punto di vista aveva ragione: lo facevo ammazzare. Naturalmente l’omicidio era anche la metafora dell’uccisione del padre, della ingombrante figura di cui ci si doveva liberare». Attraverso le sue storie stralunate, grottesche e surreali, Montalbán non rinuncia a raccontare, senza peli sulla lingua, venticinque anni di società spagnola, penetrando nei più diversi ambienti sociali, dai bassifondi ai palazzi della politica, camuffando tutto con l’indagine poliziesca, consapevole di come sia il “genere” migliore per sottrarre all’oblio vicende che altrimenti si esaurirebbero nella breve vita dei quotidiani, relegate nelle pagine interne.
Una delle prime opere del lungo ciclo di Carvalho, Assassinio al Comitato centrale (Sellerio, ’84), fa inorridire Santiago Carrello, segretario del partito comunista spagnolo. «Dal suo punto di vista aveva ragione: lo facevo ammazzare. Naturalmente l’omicidio era anche la metafora dell’uccisione del padre, della ingombrante figura di cui ci si doveva liberare». Attraverso le sue storie stralunate, grottesche e surreali, Montalbán non rinuncia a raccontare, senza peli sulla lingua, venticinque anni di società spagnola, penetrando nei più diversi ambienti sociali, dai bassifondi ai palazzi della politica, camuffando tutto con l’indagine poliziesca, consapevole di come sia il “genere” migliore per sottrarre all’oblio vicende che altrimenti si esaurirebbero nella breve vita dei quotidiani, relegate nelle pagine interne.
I temi nascosti tra le righe, pronti ad essere serviti disinvoltamente come uno dei banchetti notturni che animano la vita dei suoi personaggi, sono la crisi delle ideologie e le contraddizioni del capitalismo, i servizi segreti (Pepe è l’unico comunista al mondo ad essere stato anche agente segreto della CIA), il franchismo (che costa allo scrittore tre anni di carcere) e il post franchismo, le guerre e la globalizzazione. Guarda con occhio particolarmente disincantato al “suo” comunismo, sempre più scettico e a disagio nella Spagna di Felipe Gonzales. «Noi abbiamo aspettato a lungo la rivelazione della democrazia, ma non sapevamo che doveva venire il potere, la corruzione».
Non si sente un traditore di tutte le cause, compresa la sua? «Sì – ha risposto Manolo (o Pepe) alla domanda de El Pais – se sto dalla parte degli sconfitti è perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità. Per il resto cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi. Non ho patrie, non voto, non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando posso». Il manifesto di un outsider sornione ma non rassegnato, che ricorre alla battuta tranchant per esprimere la delusione di ideali giovanili ormai consumati, gaudente ma pur sempre nichilista. Detesta i potenti, gli arricchiti (più dei ricchi) e gli intellettuali - «Li conosco come se li avessi partoriti io» - ma questo non fa di lui una crocerossina. «Carvalho può ad ogni momento diventare un anarchico, anzi ideologicamente non avrei dubbi nel definirlo tale, non porta avanti un’analisi della realtà secondo la metodologia marxista, sta spesso dalla parte degli ultimi e per questo non si distacca troppo dall’avere una sensibilità alla Dostoevskij». Arriviamo così ad un punto chiave: il tormentato rapporto di Carvalho con i libri. La sua biblioteca personale ne conta(va) tremilacinquecento. Questo prima che si determinasse a bruciarne uno al giorno per accendere il camino. Perché ne ha letti tanti ma non gli hanno insegnato a vivere. «La cultura è come un cattivo filtro, che impedisce una reazione immediata alla vita, aveva falsificato la mia sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo. I libri non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte». Così finiscono in fumo «le letture di qualsiasi buon comunista clandestino spagnolo». A salvarsi è solo uno scrittore i cui protagonisti sono forgiati nell’avventura e avvezzi al pericolo, Joseph Conrad. «Quando i libri bruciano nei miei racconti - ha spiegato Montalbán - è per provocare. Brucia Engels per provocare i marxisti. Brucia Cervantes per provocare i cervantisti, una setta, una piccola industria culturale, come la setta di Joyce e degli altri scrittori, le piccole industrie culturali, dove mi piace molto creare un piccolo disturbo, uno scherzo».
E’ opinione diffusa che gli scrittori continuino a vivere nei loro libri, negli universi animati che hanno creato. Ed è vero, Pepe Carvalho gode di ottima salute, le sue (dis)avventure continuano ad arrivare in libreria regolarmente, per la gioia dei tantissimi lettori, mai stanchi di appassionarsi a queste storie sbicchierate disegnate con rigogliosa fantasia catalana. Coetaneo del suo autore (nato nel ’39, anno che segnò la fine della guerra civile), e cresciuto nello stesso mondo, la Barcellona del Barrio Chino, il quartiere cinese ad ovest delle Ramblas, in edifici fatiscenti ancora segnati dai bombardamenti e abitati dai perdenti (le cui leggende hanno animato le loro infanzie), José Carvalho Touron, origini galiziane, laureato, cuoco e filosofo è apparso nel ’70 dentro un romanzo visionario sperimentale che si intitolava Io ho ucciso Kennedy (arrivato in Italia nel 2001, Feltrinelli), come poliziotto al servizio del presidente, salvo poi assassinarlo. «Quando successivamente ho voluto scrivere un romanzo più realistico, critico e sociale, ho recuperato questo personaggio sottoponendolo ad una sorta di operazione chirurgica ed è diventato investigatore». Il rifiuto del comunismo, per Pepe, coincide con la separazione dalla moglie Muriel, che ne è talmente fanatica da farglielo odiare. Va a lavorare negli Stati Uniti come lettore di spagnolo in un’università del Middle West e si ritrova arruolato nell’Intelligence Service. Più tardi torna in Spagna, dove inizierà la sua attività investigativa, inseguito – neanche a dirlo – dalla Cia stessa. Sempre più perplesso ma mai veramente sconfitto, consapevole che presto «i detective saranno sostituiti dalle multinazionali dello spionaggio». Eccezionali anche i comprimari: l’amata Charo, la prostituta con la quale ha una relazione irregolare per vent’anni, José Plegamans Betriu, scassinatore di macchine conosciuto in carcere, detto Biscuter, nomignolo che fa riferimento all’utilitaria tanto in voga in spagna negli anni Cinquanta, cuoco e segretario personale, Bromuro, il lustrascarpe spione che vive delle sua mance e tanti altri.
La consacrazione carvalhesca arriva nel ’79 con Mari del Sud, premio Planeta e Internazionale di letteratura poliziesca in Francia. Riconoscimenti – ne incasserà una dozzina – che accetta con la solita ironia: «Noi scrittori desideriamo i premi e al tempo stesso li temiamo. Non so se dire “Grazie tante” oppure “Aiuto, sto andando al mio funerale”, perché devo rinunciare alla mia aura di scrittore sprezzante nei confronti della società letteraria». Di sicuro è felice del Premio Recalmare, assegnatogli nel ’89 grazie a Leonardo Sciascia, presidente della giuria e suo mentore italiano. In Italia aveva fatto la sua prima apparizione in Un delitto per Pepe Carvalho (Editori Riuniti ’82) e aveva già conquistato molti lettori, tra cui Andrea Camilleri, che ha battezzato il suo commissario Salvo Montalbano proprio in onore dell’amico Manuel Vàsquez Montalbán: «Perché proprio leggendo un suo libro capii come dovevo strutturare un libro giallo». Nei romanzi di Montalbán non c’è quasi mai un lieto fine infiocchettato, si ride ma rimane una sensazione di amarezza che forse coincide con quella dell’autore, di chi – in fondo – non si è mai preso troppo sul serio: «La nostra è una letteratura di diagnosi sociale, ma lo scrittore non è né un maestro né un propagandista. A volte m’è capitato di paragonare l’impulso di scrivere a quello dell’esibizionista completamente nudo sotto il suo impermeabile. L’esibizionista ha il coraggio di aprire il suo impermeabile in pubblico, noi scrittori cerchiamo di coprire le nudità con il fogliame appassito delle parole».
Non si sente un traditore di tutte le cause, compresa la sua? «Sì – ha risposto Manolo (o Pepe) alla domanda de El Pais – se sto dalla parte degli sconfitti è perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità. Per il resto cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi. Non ho patrie, non voto, non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando posso». Il manifesto di un outsider sornione ma non rassegnato, che ricorre alla battuta tranchant per esprimere la delusione di ideali giovanili ormai consumati, gaudente ma pur sempre nichilista. Detesta i potenti, gli arricchiti (più dei ricchi) e gli intellettuali - «Li conosco come se li avessi partoriti io» - ma questo non fa di lui una crocerossina. «Carvalho può ad ogni momento diventare un anarchico, anzi ideologicamente non avrei dubbi nel definirlo tale, non porta avanti un’analisi della realtà secondo la metodologia marxista, sta spesso dalla parte degli ultimi e per questo non si distacca troppo dall’avere una sensibilità alla Dostoevskij». Arriviamo così ad un punto chiave: il tormentato rapporto di Carvalho con i libri. La sua biblioteca personale ne conta(va) tremilacinquecento. Questo prima che si determinasse a bruciarne uno al giorno per accendere il camino. Perché ne ha letti tanti ma non gli hanno insegnato a vivere. «La cultura è come un cattivo filtro, che impedisce una reazione immediata alla vita, aveva falsificato la mia sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo. I libri non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte». Così finiscono in fumo «le letture di qualsiasi buon comunista clandestino spagnolo». A salvarsi è solo uno scrittore i cui protagonisti sono forgiati nell’avventura e avvezzi al pericolo, Joseph Conrad. «Quando i libri bruciano nei miei racconti - ha spiegato Montalbán - è per provocare. Brucia Engels per provocare i marxisti. Brucia Cervantes per provocare i cervantisti, una setta, una piccola industria culturale, come la setta di Joyce e degli altri scrittori, le piccole industrie culturali, dove mi piace molto creare un piccolo disturbo, uno scherzo».
E’ opinione diffusa che gli scrittori continuino a vivere nei loro libri, negli universi animati che hanno creato. Ed è vero, Pepe Carvalho gode di ottima salute, le sue (dis)avventure continuano ad arrivare in libreria regolarmente, per la gioia dei tantissimi lettori, mai stanchi di appassionarsi a queste storie sbicchierate disegnate con rigogliosa fantasia catalana. Coetaneo del suo autore (nato nel ’39, anno che segnò la fine della guerra civile), e cresciuto nello stesso mondo, la Barcellona del Barrio Chino, il quartiere cinese ad ovest delle Ramblas, in edifici fatiscenti ancora segnati dai bombardamenti e abitati dai perdenti (le cui leggende hanno animato le loro infanzie), José Carvalho Touron, origini galiziane, laureato, cuoco e filosofo è apparso nel ’70 dentro un romanzo visionario sperimentale che si intitolava Io ho ucciso Kennedy (arrivato in Italia nel 2001, Feltrinelli), come poliziotto al servizio del presidente, salvo poi assassinarlo. «Quando successivamente ho voluto scrivere un romanzo più realistico, critico e sociale, ho recuperato questo personaggio sottoponendolo ad una sorta di operazione chirurgica ed è diventato investigatore». Il rifiuto del comunismo, per Pepe, coincide con la separazione dalla moglie Muriel, che ne è talmente fanatica da farglielo odiare. Va a lavorare negli Stati Uniti come lettore di spagnolo in un’università del Middle West e si ritrova arruolato nell’Intelligence Service. Più tardi torna in Spagna, dove inizierà la sua attività investigativa, inseguito – neanche a dirlo – dalla Cia stessa. Sempre più perplesso ma mai veramente sconfitto, consapevole che presto «i detective saranno sostituiti dalle multinazionali dello spionaggio». Eccezionali anche i comprimari: l’amata Charo, la prostituta con la quale ha una relazione irregolare per vent’anni, José Plegamans Betriu, scassinatore di macchine conosciuto in carcere, detto Biscuter, nomignolo che fa riferimento all’utilitaria tanto in voga in spagna negli anni Cinquanta, cuoco e segretario personale, Bromuro, il lustrascarpe spione che vive delle sua mance e tanti altri.
La consacrazione carvalhesca arriva nel ’79 con Mari del Sud, premio Planeta e Internazionale di letteratura poliziesca in Francia. Riconoscimenti – ne incasserà una dozzina – che accetta con la solita ironia: «Noi scrittori desideriamo i premi e al tempo stesso li temiamo. Non so se dire “Grazie tante” oppure “Aiuto, sto andando al mio funerale”, perché devo rinunciare alla mia aura di scrittore sprezzante nei confronti della società letteraria». Di sicuro è felice del Premio Recalmare, assegnatogli nel ’89 grazie a Leonardo Sciascia, presidente della giuria e suo mentore italiano. In Italia aveva fatto la sua prima apparizione in Un delitto per Pepe Carvalho (Editori Riuniti ’82) e aveva già conquistato molti lettori, tra cui Andrea Camilleri, che ha battezzato il suo commissario Salvo Montalbano proprio in onore dell’amico Manuel Vàsquez Montalbán: «Perché proprio leggendo un suo libro capii come dovevo strutturare un libro giallo». Nei romanzi di Montalbán non c’è quasi mai un lieto fine infiocchettato, si ride ma rimane una sensazione di amarezza che forse coincide con quella dell’autore, di chi – in fondo – non si è mai preso troppo sul serio: «La nostra è una letteratura di diagnosi sociale, ma lo scrittore non è né un maestro né un propagandista. A volte m’è capitato di paragonare l’impulso di scrivere a quello dell’esibizionista completamente nudo sotto il suo impermeabile. L’esibizionista ha il coraggio di aprire il suo impermeabile in pubblico, noi scrittori cerchiamo di coprire le nudità con il fogliame appassito delle parole».
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Living brightly the 80's with Spot
Buongiorno compagni di viaggio di questa vita, sono molto contento di avervi al mio fianco. Un bacione a ninetta bella, errabonda cosmopolita, e al suo primo Post, e un abbraccio a tutti. Oggi voglio segnalare due importanti iniziative che si prospettano a brevissimo termine per me e Angelo (Forrest Dj). La prima riguarda la produzione di una serie di compilation Anni 80 curata dal Maestro e me, con la collaborazione di Max per la grafica, considerata la richiesta pervenuta dopo la serata al Palazzo Mastroddi, e la necessita' di realizzare un prodotto di qualita ad un prezzo concorrenziale. Il disco infatti, che conterra' dieci tracce mixate ad arte da Forrest, costera 9.90, e sarà disponibile entro la settimana, in diverse tipologie, dance, pop rock, italiana. E' una bella sfida per noi. Vedremo. La seconda, sempre con Angelo, la realizzazione di una colonna sonora per degli spot pubblicitari, che ci vedrà impegnati su una tematica importante, quella della donazione e del trapianto di organi, sulla quale dovremo attuare diverse variazioni a seconda della tipologia di spot realizzato. Lavoro quindi, ma anche piacere, quando si parla di musica.. e a proposito di spot oggi tiro fuori dal cilindro magico questo simpatico video, che sembra appartenere alla preistoria .. quando eravamo bambini.. un condensato del meglio delle pubblicità degli anni ottanta.. vedere per credere..
P.s.: Per chi volesse, grazie ad Angelo, potete cliccare sul titolo del Post che da il nome alle compilation per avere un "assaggio" del Maestro e della sua arte..
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martedì 12 giugno 2007
Esigenze logistiche : Per poter rimanere tranquillamente QUI.
1-2-3:PROVA...
Eccomiiiiii!!!Anche gli storditi nel loro piccolo ci riescono...Adesso prima che capirò come postare foto, video o "chennesoio"passeranno altri due mesi.Ma terrò botta. Comunque: sono depressa. Sono tornata ieri a Roma dopo una settimana a Formentera con Ninni(ale santa), Luca e altri 5 esauriti di cui non vi dirò nulla perchè sennò li arrestano e chiudono il blog di Frà.Vi parlerò invece di Formentera: un'isola bruttissima, mare sporco, spiagge affollate, gente brutta che più brutta non si può(soprattutto i baristi), nessuno svago, freddo porco che Tagliacozzo a gennaio in confronto sembra Santo Domingo,alcolici vietati e altre mille sfighe che non starò qui ad elencare perchè ci tengo al vostro buonumore e non vorrei che vi deprimeste anche voi.Quindi ringraziatemi.Un bacio a Frà che può capire la mia sofferenza.
L'afflitta
p.s.la foto sopra (ce l'ho fatta. olé!) a dimostrazione di quanto scritto.
Una strana aria
C'é una strana aria in giro, non solo qui, dove regna una calma piatta, mentre riceviamo continue visite da tutto il mondo. Pochi gli argomenti e la voglia, pochi gli stimoli intellettivi e creativi, sarà questo giugno autunnale o il desiderio di staccare tutto ed andare in vacanza, si respira un aria malinconica, invasa di negatività.. sarà solo un impressione, non so, comunque io sono vivo e saluto voi fantasmi e tutti gli Amici con la a maiuscola. In quest'ultimo periodo ho fatto una sana ripulita nel catalogo.. degli amici appunto.. e ne sono orgoglioso. Sabato Marco Josto avrebbe compiuto 29 anni, ma é molto più vivo di molti di noi.. Voglio ricordarlo cosi', con un suo lavoro a cera del 1996 dal titolo La solitudine. Auguri Marco.
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lunedì 11 giugno 2007
...E Knuckles ce lo dimentichiamo??
Visto che si parla di Mr Finger, Joe Smooth, di brothers, sister, one day we will..(non vorrete mica che scriva tutto il testo, no?)....a voi un altro pilastro dell'house music.
Due film e tanto cibo. Una piacevole domenica..
Ieri dodici ore di video quasi consecutive, é già.. tra una appassionante motoGp ed un anomalo Gran Premio di F1 ci sono scappati due film e, visto che siamo in tema di cinematografia, voglio consigliarvi due novità che ieri abbiamo degustato io e Paoletta a Roma, sbracati sul letto, tra un trancio di ottimo gateau di patate della mia eccezionale cuoca, e un sorso di Pepsi con ghiaccio e limone ( lei vino rosso, of course.. ). Il primo film, Blood Diamond, affronta, come dice appunto il titolo, la scottante problematica dell' esportazione illegale dei diamanti dai paesi africani, legato all'eccidio quotidiano di civili inermi nei loro villaggi di paglia e sterco, e il fenomeno in esponenziale aumento dei 200.000 bambini soldato che, deviati da alcool e droghe, vedono annullata la propria volontà, per esser messi al servizio di bande di scellerati di colore e non solo..anzi.. che difendono con barbara violenza i beni estorti implacabilmente alla natura. Leonardo Di Caprio é il protagonista bianco della storia, quello che da cattivo diventa buono, un ex mercenario diventato contrabbandiere, mentre l'antagonista di colore é il bravissimo Djimon Hounsou che interpreta il pescatore Mende. L'ambientazione é la guerra civile che sconvolge la Sierra Leone nel 1999, la fotografia e la regia di Edward Zwick sono di ottima fattura, con il giovane talento nero a tratti addirittura superiore all'osannato divo. I due protagonisti si uniscono nel tentativo di portare a termine due missioni altrettanto disperate: recuperare un raro diamante rosa di immenso valore e salvare il figlio del pescatore, arruolato come bambino soldato tra le fila delle brutali forze rivoluzionarie che si fanno strada a colpi di tortura e bagni di sangue. Ben fatto, piacevole.
Il profumo - Storia di un assassino , tratto dal capolavoro narrativo di Patrick Suskind, é un film emozionante per le sue atmosfere, per la splendida interpretazione del giovane Ben Whishaw, per un superlativo Dustin Hoffman nella breve ma intensissima parte del profumiere italiano Baldini, che vive nella Parigi del XVIII secolo, in cui nasce Jean-Baptiste Grenouille ( Winshaw ), nella miseria più grande, e vi nasce e sopravvive grazie a un dono unico, una capacità olfattiva eccezionale che gli permette di riconoscere le seppur minime differenze tra gli aromi che lo circondano. Dopo una adolescenza passata nella totale indigenza e disumanità, per caso riesce a diventare l'apprendista di un profumiere dal passato glorioso. Grazie all'abilità del giovane il negozio torna a fiorire, ma Jean-Baptiste inizia a sviluppare l'ossessione che lo accompagnerà sempre: ottenere l'essenza assoluta. Recatosi a Grasse, città del Sud della Francia famosa per la profumeria, per imparare la misteriosa tecnica dell'enfleurage e soddisfare così le proprie brame, il giovane scoprirà di essere in balia della sua mania della ricerca del profumo perfetto. Regia di Tom Tykwer. Da vedere, anche e soprattutto per chi non avuto l'opportunità di leggere il libro, a mio parere meraviglioso.
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Paccutone
Buongiorno a tutti amici, oggi é la volta di Massimiliano "Max" Iacovitti, alias " Paccutone ". Come si evince dalla nomenclatura aulica del suo soprannome, Max é il classico " personaggio ", l'uomo senza mezzi termini, in grado di farti fare figure di merda nel deserto, e di cambiare sette itinerari nell'arco di una giornata. Benevolmente pesante, nel senso che difficilmente la sua verace marsicanità sfocia nello scurrile e nel volgare, anche se col bicchiere quando è in compagnia é devastante. Esistono numerosi aneddoti sulle sue mirabolanti imprese, in acqua, in terra, ed in cielo... un giorno magari approfondirò l'argomento. Ha scoperto da poco l'esistenza del Blog, é venuto a salutarmi pochi giorni fa, erano mesi, forse anni che non l'incontravo, e mi ha chiesto con la sua solita dialettica fiorentina " Aho!!.. m'ha dà dàa jé ndirizz deije Blogghe, cesòite iatre ggiorn cò Andrea, é proprie fregnn " (traduzione " .. ehi, mi devi dare l'indirizzo del Blog, ci sono andato l'altro giorno con Andrea, é proprio carino "). Ha cambiato sedici lavori negli ultimi quattro anni, ora sembra che si sia placato. Lavora da più di un anno come Stuart presso un compagnia aerea Low Cost con base Catania. Gli faccio tanti auguri perché non ha avuto una vita semplice e gli voglio bene. Abbraccio tutti e bacio tutte le donne. Il video ed il sound sono per voi.. e per Paccutone, che non sò in quale angolo del Pianeta si trovi a far casino.. buon pomeriggio .. Ah !! Dimenticavo!! Max ha lasciato il biglietto con l'indirizzo del Blog in Libreria.. era venuto solo per quello..
Odyssey - Going back to my roots
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When the angels from above ...
Con questa "perla" auguro una splendida settimana a tutti.
Thanks Tin for your support in this choice.
domenica 10 giugno 2007
3 ORE DISPERATE!!!
Cari amici, ho appena finito di vedere l'ultimo capolavoro di David Lynch "INLAND EMPIRE", e devo dire che potrebbe essere pericoloso per chiunque, inserire il dvd nel lettore e premere il tasto Play. Se dovessi incontrare di persona il signor Lynch, la prima cosa che gli direi sarebbe: "ma come te permetti", e senza attendere risposta subito aggiungerei: "ma chi te credi de esse". A parte cio' andrò ad affittarlo di nuovo per darci un' altra occhiatina rischiando di finire i miei giorni in terapia da uno psichiatra.
Vi posto una recensione, dato che pubblico solo video e mai testi...
In dreams
I walk
with you
INLAND EMPIRE è un capolavoro immane, un film MAIUSCOLO con il quale si faranno i conti per decenni.
La contrastata accoglienza veneziana e i tatticismi di certa stampa (che non si sbilancia per poter tenere il piede in due scarpe: quello della boiata e quella del film faro - e domani aver ragione in ogni caso -) non fanno che confermare l’assoluta purezza dell’opus lynchiano: il disaccordo tra gli spettatori e il giudizio frettoloso della miope critica che sa solo ripetere il bolso ritornello (“Non si capisce” ) ci conferma che l’autore è perfettamente in accordo con se stesso; l’unanimità ci avrebbe preoccupati, il nuovo deve disorientare, non sarebbe tale altrimenti (Alain Resnais, in conferenza stampa, ricorda le risatine, lo sconcerto, l’esodo dalla sala quando fu proiettato al Lido L’anno scorso a Marienbad, Leone d’oro 1961). Una sceneggiatura scritta giorno per giorno per un’opera tutta in digitale (e l’uso che Lynch fa del digitale, come lo piega creativamente alla sua poetica, costituisce un’altra svolta epocale, un vero Inizio; per questo domani si scialerà in saggi): il Maestro della pellicola non vuole più sentir parlare.
INLAND EMPIRE sovrappone arte e vita (attenzione), verità e finzione, realtà e rappresentazione, veglia e sogno (compreso quello hollywoodiano). Ancora una volta diversi sono i livelli che il film esplora e ancora una volta questi si accoppiano con voluttà partorendo mostri. Piani temporali (Se oggi fosse domani ) e narrativi (il film di partenza e il suo remake, quello che la protagonista interpreterà e nel cui ruolo verrà imprigionata) che si incrociano, identità caleidoscopiche che si frantumano e si ricompongono in diversa guisa. Lynch crea il suo lavoro più estremo (fatica improba per certa critica che vuole la pappa pronta e ama spaparanzarsi nel comodo mezzo), rifiuta le scappatoie, per tre ore non molla la presa ed estenua l’occhio e la mente mescolando le carte di continuo, avvoltolando i sensi e non concedendo appiglio alcuno: ci fa piombare nel buio della sua mente e sventra l’interruttore. Ancora una volta il suo è un lavoro che paralizza la nostra mano sulla tastiera, non esaurendosi con una visione ma ponendosi all’istante come rivedibile, riconsiderabile, ripercorribile da un altro punto; il sogno non ha mai un tragitto unico e se le idee alla fine emergono, e la storia si rivela, conoscere la verità (o una semplice versione dei fatti) non serve comunque: quello che non sappiamo subito è davanti ai nostri occhi, ciò che non si capisce è già dentro di noi. Lynch non lancia messaggi, non vuole insegnare nulla, non indica vie di fuga, fa cinema e basta e lo fa pensando temerariamente a sé e non allo spettatore (esattamente come Greenaway): per questo ogni suo film, e INLAND EMPIRE più di tutti, potrebbe essere l’ultimo (dopo queste tre ore senza compromessi chi avrà il coraggio di produrne altri?). La chiarezza tanto agognata è dove conta, nel suo fare cinema, e splenderà, per chi vorrà bearsene, a visione estinta (esauriti i più bei titoli di coda che io ricordi). Ci baloccheremo a lungo con INLAND EMPIRE, lo guarderemo e riguarderemo, seguiremo tutte le piste di questo mistero spudorato, ricostruiremo alla perfezione tutti i meccanismi che lo governano nella consapevolezza che l’impressione scaturita dalle supreme immagini del più grande cineasta vivente (sì, lo è) rimarrà imperturbata dalla nostra sciocca (ma inevitabile) voglia di ricomporre il puzzle. Non avremo fretta di gustare una nuova opera lynchiana, la presente ci nutrirà per molto molto tempo - l’antidoto più efficace al mordi-e-fuggi contemporaneo -, sapremo godere a fondo di questo oggetto pauroso del quale impareremo (e tanti denigratori di oggi impareranno domani, perché succede sempre così) a non avere paura.
INLAND EMPIRE ci dice che la realtà ha un limite e che questo lo conosciamo in sogno.
INLAND EMPIRE ci dice che in realtà le cose possono stare in un altro modo.
INLAND EMPIRE dissemina segni che lasciano segni.
INLAND EMPIRE ci dice che va tutto bene: stiamo solo morendo.
(1 - continua)
Luca Pacilio
pubbl. 16-10-2006
Un EGO maiuscolo
Se Fantozzi incappasse in un dirigente cinefilo che gli infliggesse la visione di "Inland Empire", pardon, INLAND EMPIRE (il maiuscolo è d'obbligo, pare), si esprimerebbe nel più classico degli epiteti, trovando la "cagata pazzesca" del ventunesimo secolo. Se invece un comune mortale si trova davanti all'enigma di David Lynch, le considerazioni che gli passano per la testa, non volendo osare tanto, sono le più disparate. Intanto bisogna riconoscere che il regista americano ha ormai acquisito un'autorevolezza tale che gli permette di fare ciò che vuole senza che nessuno si permetta di criticarlo. Ma queste sono considerazioni tendenziose. Per restare all'opera presentata al festival di Venezia, la sensazione immediata è di sconcerto. Intanto per la scelta, pare irreversibile, di abbandonare la pellicola per un digitale "basso", che con sgranature e colori spenti dà costantemente l'idea di assistere al backstage del film piuttosto che al film stesso. Superato faticosamente l'empasse del mezzo, resta l'opera in sé: un labirintico viaggio di quasi tre ore che rifiuta ogni logica narrativa e pare procedere per associazione di idee. Ci sono temi che ricorrono, l'esistenza di dimensioni parallele, con porte spazio-temporali in grado di superare i confini della mente; c'è l'atmosfera onirica che permea l'intera opera; ci sono le suggestioni delle note fisse del fedele Angelo Badalamenti; c'è l'incontro tra il passato e il futuro, c'è addirittura una digressione polacca e c'è la protagonista Laura Dern che è una, nessuna e centomila e si aggira armata di buona volontà per i "possible worlds" ideati dal regista. Non necessario trovare una logica, pare, l'importante è lasciarsi andare al flusso, seguendo i disegni, e i fantasmi, del proprio inconscio. Qualche inquietudine arriva, nelle sequenze della sit-com degli umani con la testa da coniglio, con il sottofondo di risate che produce un efficace straniamento, oppure nelle deformazioni che alcuni dei personaggi subiscono quando si presentano con una bocca più grande del normale. Uno sguardo deformante sulla realtà, un viaggio senza meta scavando dietro alla rassicurazione delle apparenze, un incubo ad occhi aperti. Pur riconoscendo la capacità del regista americano di non omologarsi e di seguire il proprio imprescindibile sentire, bisogna però anche ammettere che INLAND EMPIRE ha più attinenza con la video-arte che con il cinema. Una dimostrazione delle molteplici possibilità del mezzo espressivo che rischia di stare stretta alla sala cinematografica. Anche perché è vero che viviamo nell'epoca in cui tutto pare avere la didascalia interpretativa per essere facilmente venduto alla più ampia fetta di pubblico, ma negare l'esistenza di un pubblico, pur nella forte personalità del risultato, è un peccato di ego, e non da poco.
Luca Baroncini
pubbl. 16-10-2006
PER CHI VOLESSE LEGGERE TUTTO:
http://www.spietati.it/archivio/recensioni/rece-2006-2007/i/INLAND_EMPIRE.htm
IL TRAILER ITALIANO:
BUONA VISIONE.
Vi posto una recensione, dato che pubblico solo video e mai testi...
In dreams
I walk
with you
INLAND EMPIRE è un capolavoro immane, un film MAIUSCOLO con il quale si faranno i conti per decenni.
La contrastata accoglienza veneziana e i tatticismi di certa stampa (che non si sbilancia per poter tenere il piede in due scarpe: quello della boiata e quella del film faro - e domani aver ragione in ogni caso -) non fanno che confermare l’assoluta purezza dell’opus lynchiano: il disaccordo tra gli spettatori e il giudizio frettoloso della miope critica che sa solo ripetere il bolso ritornello (“Non si capisce” ) ci conferma che l’autore è perfettamente in accordo con se stesso; l’unanimità ci avrebbe preoccupati, il nuovo deve disorientare, non sarebbe tale altrimenti (Alain Resnais, in conferenza stampa, ricorda le risatine, lo sconcerto, l’esodo dalla sala quando fu proiettato al Lido L’anno scorso a Marienbad, Leone d’oro 1961). Una sceneggiatura scritta giorno per giorno per un’opera tutta in digitale (e l’uso che Lynch fa del digitale, come lo piega creativamente alla sua poetica, costituisce un’altra svolta epocale, un vero Inizio; per questo domani si scialerà in saggi): il Maestro della pellicola non vuole più sentir parlare.
INLAND EMPIRE sovrappone arte e vita (attenzione), verità e finzione, realtà e rappresentazione, veglia e sogno (compreso quello hollywoodiano). Ancora una volta diversi sono i livelli che il film esplora e ancora una volta questi si accoppiano con voluttà partorendo mostri. Piani temporali (Se oggi fosse domani ) e narrativi (il film di partenza e il suo remake, quello che la protagonista interpreterà e nel cui ruolo verrà imprigionata) che si incrociano, identità caleidoscopiche che si frantumano e si ricompongono in diversa guisa. Lynch crea il suo lavoro più estremo (fatica improba per certa critica che vuole la pappa pronta e ama spaparanzarsi nel comodo mezzo), rifiuta le scappatoie, per tre ore non molla la presa ed estenua l’occhio e la mente mescolando le carte di continuo, avvoltolando i sensi e non concedendo appiglio alcuno: ci fa piombare nel buio della sua mente e sventra l’interruttore. Ancora una volta il suo è un lavoro che paralizza la nostra mano sulla tastiera, non esaurendosi con una visione ma ponendosi all’istante come rivedibile, riconsiderabile, ripercorribile da un altro punto; il sogno non ha mai un tragitto unico e se le idee alla fine emergono, e la storia si rivela, conoscere la verità (o una semplice versione dei fatti) non serve comunque: quello che non sappiamo subito è davanti ai nostri occhi, ciò che non si capisce è già dentro di noi. Lynch non lancia messaggi, non vuole insegnare nulla, non indica vie di fuga, fa cinema e basta e lo fa pensando temerariamente a sé e non allo spettatore (esattamente come Greenaway): per questo ogni suo film, e INLAND EMPIRE più di tutti, potrebbe essere l’ultimo (dopo queste tre ore senza compromessi chi avrà il coraggio di produrne altri?). La chiarezza tanto agognata è dove conta, nel suo fare cinema, e splenderà, per chi vorrà bearsene, a visione estinta (esauriti i più bei titoli di coda che io ricordi). Ci baloccheremo a lungo con INLAND EMPIRE, lo guarderemo e riguarderemo, seguiremo tutte le piste di questo mistero spudorato, ricostruiremo alla perfezione tutti i meccanismi che lo governano nella consapevolezza che l’impressione scaturita dalle supreme immagini del più grande cineasta vivente (sì, lo è) rimarrà imperturbata dalla nostra sciocca (ma inevitabile) voglia di ricomporre il puzzle. Non avremo fretta di gustare una nuova opera lynchiana, la presente ci nutrirà per molto molto tempo - l’antidoto più efficace al mordi-e-fuggi contemporaneo -, sapremo godere a fondo di questo oggetto pauroso del quale impareremo (e tanti denigratori di oggi impareranno domani, perché succede sempre così) a non avere paura.
INLAND EMPIRE ci dice che la realtà ha un limite e che questo lo conosciamo in sogno.
INLAND EMPIRE ci dice che in realtà le cose possono stare in un altro modo.
INLAND EMPIRE dissemina segni che lasciano segni.
INLAND EMPIRE ci dice che va tutto bene: stiamo solo morendo.
(1 - continua)
Luca Pacilio
pubbl. 16-10-2006
Un EGO maiuscolo
Se Fantozzi incappasse in un dirigente cinefilo che gli infliggesse la visione di "Inland Empire", pardon, INLAND EMPIRE (il maiuscolo è d'obbligo, pare), si esprimerebbe nel più classico degli epiteti, trovando la "cagata pazzesca" del ventunesimo secolo. Se invece un comune mortale si trova davanti all'enigma di David Lynch, le considerazioni che gli passano per la testa, non volendo osare tanto, sono le più disparate. Intanto bisogna riconoscere che il regista americano ha ormai acquisito un'autorevolezza tale che gli permette di fare ciò che vuole senza che nessuno si permetta di criticarlo. Ma queste sono considerazioni tendenziose. Per restare all'opera presentata al festival di Venezia, la sensazione immediata è di sconcerto. Intanto per la scelta, pare irreversibile, di abbandonare la pellicola per un digitale "basso", che con sgranature e colori spenti dà costantemente l'idea di assistere al backstage del film piuttosto che al film stesso. Superato faticosamente l'empasse del mezzo, resta l'opera in sé: un labirintico viaggio di quasi tre ore che rifiuta ogni logica narrativa e pare procedere per associazione di idee. Ci sono temi che ricorrono, l'esistenza di dimensioni parallele, con porte spazio-temporali in grado di superare i confini della mente; c'è l'atmosfera onirica che permea l'intera opera; ci sono le suggestioni delle note fisse del fedele Angelo Badalamenti; c'è l'incontro tra il passato e il futuro, c'è addirittura una digressione polacca e c'è la protagonista Laura Dern che è una, nessuna e centomila e si aggira armata di buona volontà per i "possible worlds" ideati dal regista. Non necessario trovare una logica, pare, l'importante è lasciarsi andare al flusso, seguendo i disegni, e i fantasmi, del proprio inconscio. Qualche inquietudine arriva, nelle sequenze della sit-com degli umani con la testa da coniglio, con il sottofondo di risate che produce un efficace straniamento, oppure nelle deformazioni che alcuni dei personaggi subiscono quando si presentano con una bocca più grande del normale. Uno sguardo deformante sulla realtà, un viaggio senza meta scavando dietro alla rassicurazione delle apparenze, un incubo ad occhi aperti. Pur riconoscendo la capacità del regista americano di non omologarsi e di seguire il proprio imprescindibile sentire, bisogna però anche ammettere che INLAND EMPIRE ha più attinenza con la video-arte che con il cinema. Una dimostrazione delle molteplici possibilità del mezzo espressivo che rischia di stare stretta alla sala cinematografica. Anche perché è vero che viviamo nell'epoca in cui tutto pare avere la didascalia interpretativa per essere facilmente venduto alla più ampia fetta di pubblico, ma negare l'esistenza di un pubblico, pur nella forte personalità del risultato, è un peccato di ego, e non da poco.
Luca Baroncini
pubbl. 16-10-2006
PER CHI VOLESSE LEGGERE TUTTO:
http://www.spietati.it/archivio/recensioni/rece-2006-2007/i/INLAND_EMPIRE.htm
IL TRAILER ITALIANO:
BUONA VISIONE.
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