sabato 1 marzo 2008

Buontaglio, da Nico.




Eccolo, la furia marsa di phon e lametta, un soggetto in via d'estinzione, lupo solitario, zingaro dentro, latino e animale, il mio parrucchiere Nico. Per avere un appuntamento con lui c'è bisogno di prenotare con almeno venti giorni di anticipo, e chiamare continuamente per conferma, con clienti che partono da Roma, Pescara, Corvaro, Carsoli. Ineguagliabile, inimitabile, insuperabile. Ciao mostro.

venerdì 29 febbraio 2008

Un buongiorno old style

Ciao amici, vi scrivo dalla A24, direzione Az, oggi ho aperto gli occhi e la mia mente ha stranamente ed inspiegabilmente rievocato un classico degli ottanta a cui sono molto legato. Chissà che strano viaggio onirico ho intrapreso stanotte.. bah! Vi auguro una splendida giornata.

giovedì 28 febbraio 2008

Umbriacati..

Siamo tornati dalla minivacanza food, wine and relax, tra gli incantevoli scenari della terra umbra e qualche puntatina in quel di Toscana. Paola è in montaggio ed io davanti al pc in cerca di nuove idee musicali letterarie e lavorative. E voi ?





Berté Bermé e Bertutti

Povera Loredana, soggiogata da un manipolo di pseudoautori, e pensare che ha dichiarato che ha speso sei mesi ( sei ?!?! ) della sua labile vita a scrivere un testo decente per questa melodia .. Dedico queste blasche parole a lei, con la presenza di colei che più ha amato nella vita, si, vita, quale vita, la chiamerò sfortuna ..

mercoledì 27 febbraio 2008

PERSEPOLIS, il 29 c.m.nelle sale italiane

Ecco Marjane, l'iraniana che si esprime per immagini
Dal Secolo d'Italia di martedì 27 febbraio 2008
La nomination l’aveva conquistata a suon di applausi, ma l’Oscar come migliore film d’animazione non è arrivato. Gliel’ha soffiato la corazzata Pixar. Ovvero Ratatouille. Film curato quanto divertente, quest’ultimo. Nulla da eccepire. Persepolis, però – produzione indipendente, senza effetti speciali né trucchi di alcun tipo – non fa solo ridere (e molto). Aiuta a riflettere. E di questi tempi ce n’è un gran bisogno, a tutte le latitudini. Sarà nelle nostre sale da venerdì 29 febbraio e una cosa è certa: conquisterà il pubblico come ha già fatto la grapich novel, ormai vero e proprio fumetto di culto, da cui è tratta la pellicola, il racconto di vent’anni di storia iraniana, dalla rivoluzione islamica del ’79 agli anni Novanta, visti attraverso gli occhi di una bambina coraggiosa che si ribella al conformismo del regime dei mullah intonando Eye of the Tiger, il brano dei Survivor reso celebre dall’epica dei film di Rocky con Sylvester Stallone, e comprando al mercato nero musicassette degli amati e vietatissimi Abba e Iron Maiden. Una bambina che oggi ha poco meno di quarant’anni, vive in Francia ma conserva intatta la sfrontatezza di chi non ha alcuna intenzione di rinunciare alla propria identità e si esprime per immagini «per ribattere ai pregiudizi sul mio paese senza essere interrotta»: Marjane Satrapi, già autrice di libri illustrati per bambini e “strisce” per quotidiani, è da qualche anno la “fumettista” iraniana più famosa al mondo.
Sì, perchè la sua minisaga in quattro volumi, pubblicata per la prima volta in Francia nel 2000, ha superato il milione di copie vendute. Il merito di averla proposta sin dal 2002 in lingua italiana è della Lizard – la casa editrice costituita nel ’93 dall’indimenticato Hugo Pratt, la cui stessa opera omnia impreziosisce un catalogo ricco dei principali autori di “nuvole parlanti”– che recentemente ha mandato in libreria la bellissima edizione integrale di Persepolis (352 pp. € 22,50). E il film ha la stessa energia vitale e contagiosa del fumetto. Per realizzarlo la Satrapi ha chiesto e ottenuto la collaborazione alla regia di Vincent Paronnaud, classe ’70, una delle matite francesi più brillanti della nuova generazione. Il risultato non è una semplice trasposizione cinematografica della storia, ma una originale combinazione tra la tecnica di animazione tradizionale e un montaggio con molti stacchi veloci, riferimento dichiarato al ritmo serrato di Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese e alle contaminazioni con la commedia italiana e l’espressionismo tedesco. Ne è venuto fuori un capolavoro di realismo stilizzato, più aderente alla realtà di quanto non sia generalmente il cartone animato, un film capace di alternare ironia e tragedia e di restituire lo stile grafico “minimalista” del fumetto. Rigorosamente in bianco e nero. Con un’unica scena a colori, quella iniziale, la più triste. «Il film inizia con me all’aeroporto – ha raccontato l’autrice – un episodio che abbiamo reso a colori sovvertendo la legge per cui il colore è allegria e il bianco e nero tristezza. Ero talmente malinconica che sono andata a Orly a vedere la gente che si imbarcava per Teheran. Ho fatto la coda con loro come se avessi un biglietto. Quando è stato il mio turno me ne sono andata al bar. A piangere tutte le lacrime che avevo». Il tutto senza alcun cedimento all’autocommiserazione. Al contrario, il film è decisamente autoironico, invita a sorridere di se stessi. «Il senso dell’umorismo è la chiave della sopravvivenza. E il mio umorismo è iraniano: per secoli l’abbiamo usato per cavarcela nelle avversità. Lo humor è il più alto livello di comunicazione. Ridere ti permette di prendere distanza dal mondo senza cadere nel cinismo».
Un film, anche per questo, in grado di parlare a tutti. Perché lo fa partendo dal personale e con il linguaggio universale delle immagini. «Mi piace pensare per immagini. Nessuno avrebbe avuto interesse a leggere un libro sull’Iran. Nessuno in un mondo dove basta accendere la radio o la tv o comprare un giornale per sentire di guerre e morti. Da qui la scelta di partire dalla storia con la minuscola invece che con la maiuscola. La seconda non la posso conoscere che in parte mentre la prima è la mia e se non la so io… Ho trovato il modo di raccontare come i grandi cambiamenti politici possano cambiare la vita delle persone, in modo che anche i non iraniani possano comprendere e identificarsi». Nessuna tesi precostituita. Già, perché Marjane ha tenuto a precisare cosa non vuole essere il film. «Non è un film-manifesto né un film rivendicativo, non fa facile sociologia, non dà giudizi, non dice “questo è giusto e questo è sbagliato”. Non è un film orientato politicamente, che vuole schierarsi». Tantomeno una storia del Terzo mondo o genericamente orientaleggiante. «Siamo come incastrati da qualche parte – si lamenta la Satrapi – tra il famoso Le mille e una notte di Shahrazad e il terrorista barbuto con la moglie vestita come una cornacchia». Ha ragione: si può essere fanatici (e pericolosi) indossando un elegante abito di sartoria e facendosi la barba tutti i giorni. «Fanatico è chi dice: se non la pensi come me sei contro di me. Nel mio paese sono i mullah, è ovvio. Ma non c’è differenza fra un musulmano fanatico, un cristiano fanatico e un ateo fanatico». L’ambizione dell’opera, semmai, è proprio quella di combattere contro certi luoghi comuni e nozioni astratte e generalizzanti come “terrorismo islamico” e “fondamentalismo islamico”, ricordando che le prime vittime di tutto ciò sono proprio gli iraniani che sono di fede musulmana. Offrendo un’immagine della realtà iraniana più reale di quella che la gente vede alla tv o legge sui giornali. La parte più “esotica” della storia – piuttosto – è quella che si svolge a Vienna, dove i genitori di Marjane la spediscono, appena quattordicenne, per sottrarla a un regime sempre più repressivo confidando in un’amica di famiglia che invece la parcheggerà in un anonimo pensionato. «In Austria – dirà – ho sperimentato il nichilismo dell’Occidente, la solitudine più assoluta, la mia di esule ma anche la loro». Per i suoi amici viennesi «la vita è il nulla». Asserzione incomprensibile per chi apprezza la libertà.
Spaesata e resa vulnerabile dalle prime sfortunate (ed esilaranti) peripezie sentimentali, Marjane decide di tornare in un Iran trasformato dalla lunga guerra con l’Iraq in un grande cimitero, anche se questo significa accettare intolleranti restrizioni personali, dal chador alla semplice possibilità di scambiare effusioni in pubblico con il fidanzato. Entra in un Istituto d’arte e, per evitare problemi con i Guardiani della rivoluzione, si sposa con un ragazzo che la delude. A 24 anni, pur continuando a sentirsi profondamente iraniana, prende la dolorosa decisione di divorziare e lasciare il proprio paese per la Francia. La nonna, “personaggio” meraviglioso, tenero e irriducibile, le affida un’unica raccomandazione, cui la Satrapi si è scrupolosamente attenuta: «Resta integra e coerente con te stessa». Una determinazione che certa critica progressista si è affrettata a presentare come una prova di femminismo, ricevendone in risposta una ferma presa di distanza: «Non posso essere femminista, perché ho scelto di essere umanista: il mondo non si divide in maschi e femmine. Si divide in stupidi e no». Di scontro di civiltà, giustamente, non vuole sentirne parlare. «No, non credo allo scontro fra blocchi contrapposti di civiltà: io vengo da una cultura, quella iraniana, dove la poesia è alla base del pensiero. Attualmente i conflitti non avvengono tra l’Oriente e l’Occidente o tra l’Islam e il mondo cristiano, ma piuttosto tra i fanatici e le persone normali». Non esistono civiltà superiori, neanche la “sua” Francia: «Chiudi i supermarket di Parigi, taglia l’acqua e l’elettricità e i cittadini della città più civile del mondo si mangeranno tra loro. È la paura che ci fa perdere la coscienza. Questa è la natura umana. Se vuoi che la gente non si mangi a vicenda, fai in modo che non abbia fame, dagli cultura e istruzione». E la democrazia è una conquista. «Una società è pronta per essere democratica il giorno in cui le donne e gli uomini che ne fanno parte vengono considerati uguali. In Iran oggi le donne valgono la metà degli uomini. Ma, per reazione a questo stato di cose, il 70 per cento degli studenti sono ragazze. Un giorno queste donne si emanciperanno e spingeranno la società verso il cambiamento. In mondo naturale. La democrazia non si regala come un pacco». Opinioni che non sono state apprezzate dagli ayatollah, che – per voce dell’agenzia di Stato per il cinema – hanno censurato e liquidato il film come una «manovra anti-iraniana». Presenterebbe «una visione irreale delle conseguenze della rivoluzione islamica». “Argomenti” che scoraggiano un ritorno della Satrapi in patria, dove manca da molti anni. «A un mio amico, che ha disegnato Tintin in chador, hanno ritirato il passaporto. Il regime è imprevedibile. Non so cosa farebbero a me se decidessi di andare, ma non ha l’aria di essere una buona idea».
In Europa e negli States, invece, Persepolis è letteralmente amato. Catherine Deneuve, che nel film è la voce della madre (e Chiara Mastroianni di Marjane, che nel nostro Paese ha la voce di Paola Cortellesi), ha definito la Satrapi «la mia romanziera preferita». Se al festival di Cannes il film ha ricevuto un’ovazione di quindici minuti (e il premio della giuria), il New York Times ha paragonato i suoi disegni alle litografie di Matisse e il libro è diventato lettura obbligatoria in circa 250 università americane. Non rimanendo immune a qualche tentativo di speculazione, come la “proposta indecente” di trasformare il fumetto in una serie tv, «una versione di Mai senza mia figlia (film del ’91 protagonista Sally Field, intrappolata in Iran da un marito brutale), mixata a Beverly Hills». Erano già stati scelti gli attori: Jennifer Lopez e Brad Pitt. Offerta naturalmente rigettata:«Non me la prendo per le sciocchezze dette a Hollywood, siamo in un paese dove anche i politici dicono sciocchezze». Mica solo lì. Anche qui. Anzi: "ma anche" qui.
Roberto Alfatti Appetiti

Frà, hai ricevuto email?

martedì 26 febbraio 2008

La La La La La La .............

Qui dove abitiamo..

.. tra boschi incontaminati e borghi medievali, la natura sovrasta le umane follie, e le giornate scorrono lente e sane, in rumoroso silenzio, ed animo sereno. Poi ieri sera è arrivato Sanremo, costretti dal fatto che solo il primo canale è visibile sul nostro macinino catodico e..



Ad aprire il festival, per il 50° compleanno di Nel blu dipinto di blu non è uno dei conduttori, bensì Gianni Morandi, con un omaggio a Domenico Modugno. Certo, non è il nuovo che avanza, ma il pubblico apprezza.
Dopodiché arriva Pierino la peste, in giacca bianca, scarpe tricolore e tutta la verve di cui lo sappiamo capace, e il festival prende il via.
Pippo arriva solo dopo un po', come un deus ex machina. Non scende la scale, ma sale da una botola, preceduto da 12 finti Pippi, a rappresentare le 12 precedenti edizioni di Sanremo condotte da lui.
In prima fila c'è, immancabile, Del Noce. Al suo fianco la Parietti, altrettanto scontata, benché tutt'altro che indispensabile. E viene subito da chiedersi chi paghi la sua permanenza a Sanremo...
Ma la presenza femminile di punta della serata è un'altra: è quella della bionda Andrea Osvart (alla Guaccero tocca stasera). Ballicchia e canticchia, riuscendo - impresa non da poco - a stonare anche in playback, e la domanda che sorge spontanea a questo punto è un disperato 'peeerchééé????'.
Ma per fortuna - ?? - c'è la gara. Sono appena le 21.25 e per un momento ci illudiamo che la serata possa evitare di trascinarsi troppo per le lunghe. Ma è davvero solo l'illusione di un momento.
Il primo ad esibirsi è, fra i Big, un emozionatissimo Paolo Meneguzzi, che sarà anche un divo in Sudamerica, ma qui continua a convincere solo a metà. La canzone - Grande - è un classico branetto d'amore, senza infamia e senza lode. Vabéh.
Segnaliamo invece L'Aura e la sua splendida voce, con un brano originale e piacevole (Basta), Frankie Hi Nrg Mc e il suo rap 'civile'di Rivoluzione, Max Gazzé con un testo geniale e divertente ne Il solito sesso, ed un Tricarico interessante ed intelligentemente citazionista ma penalizzato dall'esibizione notturna: manca infatti poco all'una quando canta Vita tranquilla.




Fra gli altri, Toto Cutugno canta d'amore in rima baciata e con più ritmo del solito, il che è apprezzabile... Cantano d'amore anche Zarrillo e Fabrizio Moro, ma senza travolgere. Eugenio Bennato canta il suo Sud in stile folk ed infine canta un amore 'diverso' la super favorita Anna Tatangelo, anzi Tettangelo, che dedica il brano al suo truccatore ed esibisce una scollatura anche troppo generosa.
Tra i giovani, bravi e divertenti i foggiani Frank Head, con il loro sound quasi balcanico e un testo vagamente dissacrante e Giua, dalla voce bellissima e con una canzone intelligente. Tutto il resto non è proprio noia, ma poco ci manca. Gli altri 2 che passano in finale sono Valerio Sanzotta che canta la storia recente in Novecento; e i Milagro con una insipidina Domani.
Niente di particolare da dire sugli ospiti - Lenny Kravitz, un assaggio di High School Musical e Carlo Verdone con la bravissima Geppi Cucciari - che si fanno apprezzare se non altro per l'esiguità di numero, al contrario delle insopportabili e continue interruzioni pubblicitarie.
La serata ufficiale termina intorno all'una, ma solo per passare il testrimone a Elio e le storie tese che con Lucilla Agosti daranno vita ad un ottimo Dopofestival. Ma è davvero troppo tardi ed ha ragione Chiambretti quando dice a Baudo "Pippo, il pubblico è morto. L'unico ancora in vita a quest'ora sei tu!"
Meno male che c'era Elio ..

domenica 24 febbraio 2008

Neil Young, l'America che ci piace (di Federico Zamboni)

Un bell'articolo del mio amico Federico Zamboni...
Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 24 febbraio 2008
Di tanto in tanto, se stasera avrete avuto la fortuna di trovare posto al Teatro degli Arcimboldi di Milano, per quest’unica apparizione italiana di Neil Young, chiudete pure gli occhi e assaporate l’impressione che il tempo si sia fermato. Che non sia affatto vero che lui abbia ormai 62 anni e che siano passati quasi quattro decenni da Harvest. La voce è ancora la stessa. Le canzoni – come in Prairie Wind, del 2005 – possiedono ancora lo stesso sapore a metà strada tra serenità e malinconia: la serenità di chi conosce il valore di ciò che ha avuto; la malinconia di chi non disconosce il valore di ciò che ha perso.
Riaprite gli occhi: osservate quest’uomo che è sopravvissuto ad un aneurisma cerebrale e che non fa nulla per nascondere la sua età; quest’uomo che crede nella magia profonda della musica e che non ha mai fatto confusione tra il divertimento sano e l’intrattenimento prefabbricato; quest’uomo che sa (che avverte) quanta storia, quanta tradizione, quanta vita ci sia dentro certi suoni: i singoli brani possono essere nuovi, ma non lo è la terra nella quale sono cresciuti. Neil Young suona i propri pezzi: ma è orgoglioso di imbracciare la chitarra che appartenne ad Hank Williams.
«Cerchiamo di rendere omaggio alla vecchia musa, alla musa che esisteva qui prima: a ciò che accadde in passato, che creò le radici che abbiamo ancora oggi».
L’America migliore. Che conosceva il lavoro duro e lo rispettava. Che sapeva distinguere tra la lotta per la sopravvivenza e quella per la sopraffazione. L’America di origine contadina: che cercava di sfuggire alla povertà per ottenere un po’ di requie e un po’ di gioia, non per sostituire la sobrietà col lusso sfrenato.
Neil Young è canadese, ma ha varcato il confine nel 1965 e si è trasferito definitivamente l’anno successivo. Il richiamo del rock. L’entusiasmo, l’ingenuità, i sogni di una generazione che era convinta di poter cambiare il mondo: milioni di ragazzi e ciascuno ha un cuore; e ogni cuore irradia energia; e l’energia si somma insieme e si moltiplica a dismisura; e cresce, e cresce, e cresce. Unita nella stessa corrente. Proiettata nella stessa direzione.
Come fai a non vederlo? Si abbatterà sulle mura dell’egoismo e dell’indifferenza e le spazzerà via, una volta per tutte. Basta politicanti, basta affaristi, basta Masters of War. Lo Zio Sam non punterà più il dito per spedirti a morire con la scusa della patria. Sulle banconote non ci sarà più la bestemmia “In God We Trust”. Dio non avrà più bisogno di promettere il paradiso o di minacciare l’inferno, per ottenere un po’ di buona volontà dagli esseri umani. Allora, finalmente, il sogno collettivo potrà di nuovo scindersi (sciogliersi) in una miriade di sogni individuali: milioni di ragazzi – e forse anche di adulti, se comprenderanno di essere finalmente liberi come non lo sono mai stati – e ciascuno avrà il suo. Da vivere, da benedire, da cantare. Da offrire, non da imporre.
«Io e la mia generazione capiamo quella frase: pace e amore. Noi eravamo così, ma oggi è facile prendere tutto questo in giro. I media sono come il cortile di un liceo: un ragazzo che soffre di una deformazione ai piedi entra e tutti iniziano a prenderlo in giro. Se gli anni Sessanta sono stati sopravvalutati non so proprio cosa si potrebbe dire di altri decenni e di altre generazioni. Davvero sono sopravvalutati? Rispetto a cosa?»
La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori. E i vincitori hanno le risposte bell’e pronte. «Il punto, Neil, è che avete perso. Volevate cambiare il mondo e non ci siete riusciti. E se non ci siete riusciti significa che non eravate poi così speciali. Ecco, Neil. Significa questo, “sopravvalutati”».
Punti di vista. E modi di essere. Ci sono quelli che tifano per la squadra più forte e quelli che si tengono stretta la squadra del cuore, dovunque vada a finire. E figurati, poi, se si rendono conto che il campionato è truccato.
Neil Young, per fortuna, appartiene alla seconda specie. Un idealista coi piedi per terra. Uno che non scambia gli ideali per canditi (morbidi-morbidi, dolci-dolci) e che è pronto a pagare il biglietto anche se non gli garantisci per iscritto l’happy end. Per istinto o per esperienza – e più probabilmente per una robusta miscela di entrambi – sa che l’unica maniera di non avere rimpianti è mantenersi fedeli a ciò in cui si crede. Se c’è da lottare, si lotta. Se c’è da mandare giù qualche (qualche?) boccone amaro, lo si manda giù. Ma quando finalmente si vince, nel modo pulito e scintillante di chi ha fatto davvero del suo meglio, senza concedere nemmeno un sissignore agli arbitri, senza dedicare nemmeno una canzone alla moglie (insopportabile) dell’impresario, allora sì che ne è valsa la pena. Allora sì che è festa grande.



Neil Young, a tutt’oggi, ha pubblicato all’incirca 40 album da solista. Più i cinque con Crosby, Stills e Nash. Più quello col solo Stephen Stills. Più i tre coi Buffalo Springfield, a inizio carriera. Una produzione vastissima in cui è difficile orizzontarsi anche per gli esperti. Ci sono album annunciati e non usciti; ce ne sono altri che sono apparsi solo in alcuni Paesi, o che sono stati pubblicati in versioni diverse da mercato a mercato. Persino l’accuratissima Discografia illustrata di Stefano Frollano (Coniglio Editore, 2006, pagg. 334, € 21,50) non fa che confermarlo: rileva tutto ma non azzarda tabelle riassuntive, nonostante l’autore si sia imposto, nell’ammirevole tentativo di sbrogliare la matassa, la più puntigliosa e infaticabile delle gimcane tra codici alfanumerici e copertine differenziate a seconda del luogo di uscita, e vinili colorati oppure no, e chissà quanti altri dettagli editoriali più o meno (ir)rilevanti.
Bene. In una discografia tanto ampia, e tutt’altro che omogenea, i rischi sono enormi. Rischi sul piano artistico, essendo estremamente difficile spostarsi con la stessa padronanza, e quindi con la stessa efficacia, da un genere all’altro. E rischi sul piano commerciale, visto che il pubblico adora le novità solo in una prima fase – quando ancora non sa chi diavolo sia l’ultimo venuto e, perciò, è ancora disposto a lasciarsi sorprendere – mentre in seguito tende a preferire che le cose rimangano come sono. Rischi che hanno seminato, anche tra gli estimatori più attenti, e più duttili, perplessità e controversie: meglio le ballate acustiche o le sfuriate elettriche? Meglio le riflessioni esistenziali o le requisitorie politiche? Meglio, a parità di atmosfere, i brani di Harvest o quelli di Prairie Wind? Meglio l’alleanza una tantum coi Pearl Jam – che lo considerano, e non sono i soli, il padre putativo del grunge – o quella di vecchissima data coi Crazy Horse?
«Viene facile – ha scritto un paio d’anni fa Riccardo Bertoncelli sul mensile XL, presentandone gli album più significativi – dire che Young non ha mantenuto tutte le sue promesse, che il futuro dalle parti di Harvest, e di Four Way Street, sembrava più radioso. Però poi uno prende la discografia e deve scervellarsi per far tornare i conti; i dischi interessanti sono più di quelli segnalati qui, limitati dallo spazio.»
Lo aveva spiegato lo stesso Young, del resto. Nel documentario Year of the Horse, firmato da Jim Jarmusch nel 1997, c’è un momento in cui lui si rivolge al pubblico e lo dice chiaro e tondo: «E’ tutta una sola canzone». Una lunga, interminabile successione di cose avvenute o immaginate, di luci e di ombre, di affermazioni e di negazioni. Affermazioni che magari non bastano a indirizzare gli eventi; negazioni che non bastano quasi mai a scongiurare i disastri. The Needle and the Damage Done: «Sono arrivato in città e ho perso la mia band. Ho visto l’ago prendere un altro uomo. Andato, andato. Il danno fatto. So che alcuni di voi non capiranno, ma ogni tossico è come un sole che tramonta».
The Needle and the Damage Done. La canzone scritta – inutilmente – per Danny Whitten, il chitarrista dei Crazy Horse che stava sprofondando nelle sabbie mobili della droga. E che sarebbe morto l’anno successivo, anche se non di overdose ma di una fatale miscela di alcol e di valium, dopo il fallimento di un estremo tentativo di coinvolgerlo nella preparazione di Times Fades Away. Danny Whitten: che era un musicista di talento e che è diventato solo un altro nome sull’elenco, sempre più lungo, dei ragazzi stroncati dagli stupefacenti. Un altro numero per le statistiche. Un dramma individuale che si perde rapidamente, che si svaluta, nel fenomeno di massa. E che va ad alimentare lo stereotipo: il rock e la droga vanno di pari passo. La promessa di entrambi è eccitare; l’esito di entrambi è stordire. Allarghi la coscienza (di cosa?) e cancelli la consapevolezza (di tutto).
Alla fine, oltre che una tragedia collettiva, è il più grande favore che si possa fare all’establishment. Tanto di guadagnato, se i ribelli si tolgono di mezzo da soli. Se la repressione diretta – come nel caso dei quattro ragazzi uccisi dalla Guardia Nazionale alla Kent State University il 4 maggio 1970, e poi cantati dallo stesso Neil Young nella celeberrima, durissima Ohio – rimane l’eccezione. Esistono altri strumenti, d’altronde. Non solo le droghe vere e proprie, ma anche degli allucinogeni più subdoli, che rendono altrettanto succubi ma che sono tutt’altro che vietati. E che non hanno nessuna controindicazione apparente. Il successo, la fama, il denaro. I contratti discografici a sei zeri. L’apoteosi dei concerti. La folla adorante sotto il palco. Le ragazzine servizievoli nei camerini. Gli introiti supplementari della pubblicità: una bella canzone, un riff trascinante, e il gioco è fatto. Vendite alle stelle. Royalties alle stelle. Alle star.
«Cosa pensi – gli ha chiesto recentemente David Fricke, di Rolling Stone – quando vedi la musica dei tuoi contemporanei, Jimi Hendrix e gli Who, comparire negli spot? E’ una guerra persa?»
«Non ho perso. Io combattevo solo per me stesso. La mia musica ruota ancora intorno a me e ai miei fan. (...) Alla fine, quando non ci sarò più e il mio pubblico sarà scomparso, tutto ciò che rimarrà è la musica. La gente potrà ascoltarla e ricavarne quello che più desidera.»
Il cerchio si chiude. All’inizio le canzoni sono proprietà di chi le ha scritte. Alla lunga diventano patrimonio pubblico. Parte di una tradizione, di un’identità, che allo stesso tempo si rinnova e si perpetua. Neil Young – lo abbiamo ricordato all’inizio – lo afferma espressamente parlando del country, che è appannaggio della popolazione di razza bianca e di ascendenza europea; ma la sua idea di appartenenza a un ordine superiore trascende qualsiasi comunità umana e si estende all’universo. O, almeno, a quel pezzetto di universo nel quale viviamo.
«Gli indiani di base sono pagani ed è questo in cui anch’io credo: nella natura, che sia stato o meno Dio a crearla. Questa è la mia chiesa: quando vado nella foresta, in un grande prato o nell’acqua. Non ho bisogno di alcun predicatore. Ho identificato tutta la mia vita con i cicli lunari, come gli indiani. Se devo registrare aspetto che ci sia la luna.»
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.