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sabato 29 settembre 2007
mercoledì 26 settembre 2007
Marco Lodoli, il "céliniano" democratico
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Si è candidato all’assemblea costituente del Partito democratico nelle file veltroniane. Eppure, Marco ha da sempre i suoi affezionati lettori in tanti irregolari, destrorsi e non-allineati, sin dal suo primo romanzo da esordiente trentenne, il «céliniano» – per sua confessione – Diario di un millennio che fugge (Theoria ’86). E invece sì, Il Corriere della Sera ha fatto il suo nome per quelle liste. Nessuna omonimia, è proprio lui: «Marco Lodoli, scrittore». E in quella compagnia... Passi per Lidia Ravera e i suoi "porci con le ali", volino pure dove meglio credono. Passi per il matematico Piergiorgio Odifreddi che – fedele al proprio cognome – non molto tempo fa ha sentenziato che la parola “cretino” deriva etimologicamente dalla parola “cristiano”. L’ultima fatica “letteraria” di quest’ultimo è (sic!) Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici). I libri di Lodoli, però, sono altra cosa: sentieri impervi e mai scontati, «percorsi danteschi dal fango alla luce» nei quali non c’è traccia di valori prêt-à-porter in saldi di fine stagione (ideologica), ma solo di uomini e donne dalle vite zoppicanti e sconclusionate che cercano disperatamente il significato del loro soggiorno terrestre. Sfuggono alla vita, si riparano in giornate tranquille alimentate da piaceri addomesticati e caute speranze, fino a quando accade qualcosa di inatteso e «tutto viene messo in forse da una verità più grande. E allora la cuccia si fa stretta, il pasto scialbo, la catena troppo corta: viene voglia di farsi lupi e amare».
La destinazione del suo viaggio letterario è – citando Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata» – la riscoperta del nostro essere individui, la nostra unicità nel mondo, la dolorosa felicità della naturalezza. Consapevole – parole sue – che quanto più a fondo ti scava un’infelicità, tanta più felicità potrai contenere. Nelle sue pagine, sospese tra sogno e realtà, lirismo e ironia, luoghi fantastici e marciapiedi romani, vicine alla fiaba almeno quanto distanti dalla denuncia sociale – «dove le parole creano piuttosto che riferire» – non c’è traccia di neorealismo ruffiano e di materialismo neo-illuminista e neo- marxista. Lui è figlio – letterariamente parlando – di Anna Maria Ortese e Cristina Campo, scrittrici solitarie e irregolari (e non certo di sinistra). Come loro, è alla ricerca della voce più segreta delle cose, delle presenze invisibili, dei pensieri inespressi. Di Dostoevskij e Céline, spiriti visionari. Intendiamoci, non che Marco Lodoli sia un allineato. Si è sempre rifiutato di prestare la sua letteratura al «dibattito sui problemi della società». E quando la critica militante, ferma «all’equazione tra libro e mondo da rappresentare», glielo ha rimproverato, opportunamente ha obiettato che «fino a ieri l’altro, in tutto il Novecento, l’arte è stata un’altra cosa: la creazione di mondi in cui accade un pensiero».
Per questo, dalle colonne del nostro Secolo d’Italia – primo giornale a salutare il suo debutto con una appassionata recensione in anni ormai lontani – gli rivolgiamo un appello: ci ripensi! Sì, primo quotidiano a occuparsi di Marco Lodoli. Grazie all’affetto e alla stima del suo primo lettore, suo padre, l’ingegner Renzo, classe di ferro 1913, combattente in Africa e Spagna, «innamorato della guerra ancor prima che del fascismo». Cui rimase fedele nella Repubblica Sociale e anche dopo, non facendosi mancare un anno di prigione per aver incitato – a guerra finita – i giovani a combattere. Renzo Lodoli (nella foto a destra) nel ’46 è stato tra i fondatori del Msi, salvo poi dedicarsi all’ingegneria e alla scrittura di racconti «dalla parte sbagliata», come titola una sua raccolta pubblicata nel dopoguerra. Senza nessun pentimento. «Perché io non ho nulla di cui vergognarmi» ha recentemente ribadito in una lunga intervista a Repubblica, quotidiano di cui il figlio è collaboratore da diversi anni (la sua rubrica settimanale nell’edizione romana, “Isole”, è diventata un libro, il bellissimo Isole, guida vagabonda di Roma, Einaudi 2005). Pur da posizioni evidentemente distanti – Marco si colloca a sinistra, anche se in una sinistra immaginaria – di quella generazione Marco apprezza la capacità di sacrificarsi, la stessa che, lamenta, manca ai suoi studenti, «insidiati dal demone della Facilità, una divinità tanto ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave ma che ha un becco così sottile e feroce da mangiarci il cervello».
Per questo, dalle colonne del nostro Secolo d’Italia – primo giornale a salutare il suo debutto con una appassionata recensione in anni ormai lontani – gli rivolgiamo un appello: ci ripensi! Sì, primo quotidiano a occuparsi di Marco Lodoli. Grazie all’affetto e alla stima del suo primo lettore, suo padre, l’ingegner Renzo, classe di ferro 1913, combattente in Africa e Spagna, «innamorato della guerra ancor prima che del fascismo». Cui rimase fedele nella Repubblica Sociale e anche dopo, non facendosi mancare un anno di prigione per aver incitato – a guerra finita – i giovani a combattere. Renzo Lodoli (nella foto a destra) nel ’46 è stato tra i fondatori del Msi, salvo poi dedicarsi all’ingegneria e alla scrittura di racconti «dalla parte sbagliata», come titola una sua raccolta pubblicata nel dopoguerra. Senza nessun pentimento. «Perché io non ho nulla di cui vergognarmi» ha recentemente ribadito in una lunga intervista a Repubblica, quotidiano di cui il figlio è collaboratore da diversi anni (la sua rubrica settimanale nell’edizione romana, “Isole”, è diventata un libro, il bellissimo Isole, guida vagabonda di Roma, Einaudi 2005). Pur da posizioni evidentemente distanti – Marco si colloca a sinistra, anche se in una sinistra immaginaria – di quella generazione Marco apprezza la capacità di sacrificarsi, la stessa che, lamenta, manca ai suoi studenti, «insidiati dal demone della Facilità, una divinità tanto ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave ma che ha un becco così sottile e feroce da mangiarci il cervello».
Dimenticavamo di dirlo: Marco Lodoli, prima che scrittore è un professore, un educatore che non si rassegna ad assistere al «genocidio delle intelligenze degli adolescenti» e ancora si indigna nei confronti di chi concepisce la cultura come supponente esercizio di “bravura” utile ad occupare narcisisticamente una vetrina. Ci riconosciamo nell’invito che ha lanciato: «Abbandonare ogni superbia intellettuale, ogni facile schema e ogni rassicurante abitudine per arrivare a quella finestra che affaccia sul significato ultimo delle cose». L’intelligenza – osserva – separa, giudica, contrappone: «La letteratura abbraccia, perdona e coglie l’unità segreta che sta dietro l’apparente frantumazione del reale». E certo non è facile trasmettere ai giovani l’etica del sacrifico quando «il mondo intero afferma il contrario e in televisione e sui manifesti pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato». Del resto, la modernità ci aveva promesso «una società nella quale non avremmo più sofferto, il sogno di una rosa senza spine». Senza badare agli effetti collaterali: «Ogni nobile illusione viene immediatamente scartata perché prevede una fatica che non si desidera più compiere». I ragazzi, specialmente quelli delle periferie (Lodoli insegna in un istituto professionale), non sono più disposti a impegnarsi, si ritirano da ogni confronto, anche da quello più importante: con la loro vita e i loro sogni. Rinunciano a «essere gli artigiani della propria esistenza». Si rassegnano a un futuro da spettatori e consumatori. «Un tempo l’ammirazione per le persone famose spingeva all’emulazione, grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli». Adesso si invidiano i vip «solo perché si sono sollevati dal fango». Poco importa se hanno realizzato un film o commesso una rapina, quello che conta è uscire dal cono d’ombra, avere i soldi perché con i soldi puoi prendere le distanze dallo squallore della vita che ti circonda, erigere un muro di cinta, piantare una parabolica per pay tv, evitare lavori faticosi e degradanti, tutto pur di non ripetere la vita dei loro nonni e dei loro genitori.
«I nostri padri hanno preso a schiaffi la sofferenza – ricorda Lodoli – noi invece restiamo zitti e buoni, grassi e pigri, scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna». C’è una certa nostalgia in Lodoli nel ricordare quel mondo a misura d’uomo, «ultimi bagliori di una comunità reale, interclassista, pettegola ma disponibile». Il sentimento della nostalgia affiora spesso nella sua prosa, in quel sentirsi «frammenti di una vetrata forse bellissima infranta da una martellata. Nostalgia di quella vetrata, di un assoluto che spinge i miei personaggi a cercare l’unità delle cose». Questa è la sua scrittura: «cercare tramite le parole il cammino da fare, come ritrovare delle briciole o dei sassolini che mi potessero portare là dove qualcosa mi aspettava». Al primo romanzo – che non è, come recita il sottotitolo, il romanzo di una generazione senza qualità, perché quella in cui è cresciuto aveva come parola d’ordine la creatività – è seguito Snack Bar Budapest (Bompiani, ’87), suo unico noir, scritto a quattro mani con la compagna Silvia Bre, da cui Tinto Brass ha tratto ispirazione per un suo (brutto) film. Poi sono seguiti i racconti surreali e grotteschi del Grande raccordo (Bompiani ’89) e la triologia di romanzi brevi Fannulloni, Crampi e Grande circo invalido (tutti pubblicati nei primi anni Novanta da Einaudi, che rimarrà la sua casa editrice), e successivamente raccolti in unico volume, I principianti. Principianti, marginali, anime nude e dolenti, creature smarrite e dal passo traballante in favole metropolitane dalle tinte picaresche. Lodoli le accompagna «fino alla sbarra della frontiera estrema, e poi laggiù, tremando d’irresponsabilità, quella sbarra ho provato ad alzarla». Già, perché «se la nostra storia di uomini termina quasi sempre contro una morte nemica, la letteratura può con la morte stabilire una confidenza, un’intimità irridente che riesce a cambiare anche il colore della vita». Ed è proprio sul crinale di questo confine incerto, in bilico tra deriva e speranza, che scrive le sette storie che compongono la raccolta di Cani e lupi (’95) e i romanzi Il vento (’96), I fiori (’99) e La notte (2001), altra trilogia (raccolta ne I pretendenti) di una Roma odierna ed eterna nella quale i “protagonisti” sono alle prese con «l’Inevitabile» sempre lì, pronto ad allungare le mani su ogni cosa. Non poteva mancare una raccolta di nove racconti sulla scuola, I professori e altri professori (2003), «un mondo che esce dai suoi confini di gesso» e di fronte al quale sia gli allievi che gli insegnanti sono principianti al cospetto dell’imprevedibilità della vita.
All’attività narrativa lo scrittore romano ha anche affiancato quella di critico cinematografico, o meglio di “spettatore esigente”, come s’intitolava la sua rubrica per il Diaro della settimana, la rivista diretta da Enrico Deaglio. E’ nata così una suggestiva quanto originale antologia composta dalle recensioni di 100 film, Fuori dal cinema. «Fuori dal cinema significa forse dentro alla vita, a quel grumo di pensieri ossessioni debolezze e speranze che ogni giorno e con ogni mezzo – comprese le immagini dei film e le parole dei libri – proviamo a depurare affinché un barlume di verità possa traversarlo d’improvviso».
La sua ultima opera, Bolle, diciannove racconti sul filo dell’illusione e della verità, è del 2006. «Brevi storie – come recita la quarta di copertina – che ci aprono al mondo dell’immaginazione, del sogno, delle speranze che sole possono aiutarci a vivere: bolle luminose tra i pungiglioni della vita». Non ci rimane che aspettare il prossimo libro e nel frattempo confidare che il 14 ottobre siano pochi i romani che scrivano il suo nome sulla scheda, così da non distrarti dalla letteratura, per continuare a porci, leggendoti, quelle domande invalicabili….
All’attività narrativa lo scrittore romano ha anche affiancato quella di critico cinematografico, o meglio di “spettatore esigente”, come s’intitolava la sua rubrica per il Diaro della settimana, la rivista diretta da Enrico Deaglio. E’ nata così una suggestiva quanto originale antologia composta dalle recensioni di 100 film, Fuori dal cinema. «Fuori dal cinema significa forse dentro alla vita, a quel grumo di pensieri ossessioni debolezze e speranze che ogni giorno e con ogni mezzo – comprese le immagini dei film e le parole dei libri – proviamo a depurare affinché un barlume di verità possa traversarlo d’improvviso».
La sua ultima opera, Bolle, diciannove racconti sul filo dell’illusione e della verità, è del 2006. «Brevi storie – come recita la quarta di copertina – che ci aprono al mondo dell’immaginazione, del sogno, delle speranze che sole possono aiutarci a vivere: bolle luminose tra i pungiglioni della vita». Non ci rimane che aspettare il prossimo libro e nel frattempo confidare che il 14 ottobre siano pochi i romani che scrivano il suo nome sulla scheda, così da non distrarti dalla letteratura, per continuare a porci, leggendoti, quelle domande invalicabili….
Roberto Alfatti Appetiti
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martedì 25 settembre 2007
Dave Brubeck- west coast jazz dell'uomo bianco
Mentre nella Manhattan anni '40 il jazz era monopolio dei neri, che si esibivano in locali storici come il Minton ed il Birdland, nalla parte ovest degli States, alcuni bianchi iniziavano ad interpretare e rendere proprio il Jazz. Chet Baker, con la sua voce e la sua tromba rappresenta sicuramente un fermo rappresentante di tale corrente. Tuttavia Chet re-interpretava in maniera sublime gli standard classici, ma con lo stile e la caratteristica delle jazz band di colore. Dave Brubek, invece, inseri' nel mercato un jazz "colto", con influenze Europee, e dalle complesse strutture armoniche. In piu' riprese Dave Brucket fu accusato di aver snaturato un genere musicale e di averlo portato ad un livello "snob". Ricordando che ci troviamo nel periodo delle lotte raziali, e' facile capire che i neri si sentivano sottrarre per l'ennesima volta parte della loro cultura dall'uomo bianco. Tuttavia, stava nascendo un nuovo fenomeno musicale, destinato a lasciare un segno indelebile alla musica jazz: il Dave Brubeck Quartet.
Buon ascolto con la mitica "Take 5".
Per saperne di piu' su Dave Brubeck,
- Dave Brubeck webpage
- Wikipedia
- Jazz Italia
lunedì 24 settembre 2007
domenica 23 settembre 2007
Un week end in Paradiso
Oggi 24 Settembre 2007 ore 16:48 metto di nuovo piede nella nostra virtualhome e saluto calorosamente tutti gli amici di Frequenze&Dissonanze. Ringrazio Pirulo, Roby A.A., Roby B., Angelo, e tutti i ragazzi che hanno mantenuto in vita il nostro piccolo spazio creativo in mia assenza. Vorrei fare gli auguri alla mia donna per il nuovo lavoro al fianco del " Brunetto " nazionale, e mantenere la promessa fatta al grande Antonio Presti di dedicare qui uno spazio al suo splendido Atelier sul Mare, che ho avuto modo di conoscere e vivere lo scorso fine settimana, grazie alla forte amicizia che lo lega a Paola, con la quale ho condiviso 4 giorni di arte in Paradiso, avendo l'onore ed il piacere di stare in compagnia dello scultore Mauro Staccioli, autore della stanza della Trinacria, e del direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, ospiti del buon padrone di casa. L'incantevole scorcio di mare e costa ed il clima primaverile hanno fatto da splendido contorno a questo necessario quanto gradito break lavorativo.
L’Art Hotel Atelier sul Mare è una realtà unica al mondo, il Museo-Albergo, è incastonato in una baia di pescatori a Castel di Tusa in Sicilia (Me), dista 20 Km da Cefalù e appena 7 Km da S. Stefano di Camastra. La sua unicità consiste nell'essere albergo e nel contempo museo permanente.
L’ originalità e la sua creatività, rendono l'Atelier sul Mare ricco di atmosfere irripetibili. Dispone di 40 camere, 20 delle quali sono camere d'arte. Esse propongono spazi e scenari stupefacenti. Le camere d'arte della struttura sono state infatti disegnate e arredate da famosi artisti contemporanei italiani e stranieri come Danielle Mitterand, Agnese Purgatorio, Cristina Bertelli, Renato Curcio, Vincenzo Consolo, Hidetoshi Nagasawa, Raoul Ruiz.
Paolo Icaro (Il Nido)
L'albergo è praticamente sul mare, dispone di spiaggia attrezzata, di una sala convegni con capienza di 100 posti in grado di poter ospitare piccoli e grandi eventi. All'interno della struttura è possibile frequentare interessanti corsi di ceramica in quanto l'attiguo paese di S. Stefano di Camastra vanta una millenaria tradizione artigianale in tal senso.
Finestra sul mare - Tano Festa ( .. quello piccolo in basso a sinistra con la maglia verde e la panza sono io .. )
Un'occasione da non perdere è la visita al museo all'aperto di sculture monumentali di Fiumara d'Arte, il più grande d'Europa. Esso, fatto realizzare da Antonio Presti e da lui donato alla Regione Sicilia, si estende in un area che va dal litorale tirrenico siciliano fino all'entroterra della Valle dei Nebrodi. Ho avuto la fortuna di esplorare il suo mondo, entrando nella sua vita artistica e privata, apprezzandone il coraggio, il senso estetico, la forza morale.
Antonio Presti
Antonio faceva l’imprenditore fino a quando non ha deciso di trasformarsi nel mecenate più spericolato e fuori dal coro che le arti italiane possano vantare.
E ha cominciato a sue spese e a suo rischio a disseminare di sculture il letto secco di una fiumara, vicino a Tusa, in provincia di Messina. Assolutamente abusive ed assolutamente bellissime. Opere di Festa, Pomodoro, Nagasawa e di tanti altri. Ha combattuto la sua battaglia contro norme sciocche, ha scritto a chiunque nel mondo per difendere la sua Fiumara, che per buona sorte è ancora lì. Ma non bastava. Ora Presti, che è uno che pensa che arte, bellezza, dignità e cultura, facciano parte dei bisogni essenziali di ogni uomo, ha deciso di scommettere in grande e di intervenire a Librino, enorme quartiere ghetto di Catania, periferia progettata da Kenzo Tange per essere il centro direzionale della città e trasformatasi nella desolazione e nel disagio periferico di un quartiere dormitorio. Per mutarne radicalmente il destino utilizzando le facciate cieche dei palazzoni di Librino per realizzare, sempre a sue spese, sempre col suo solito piglio un po’zapatista che gli fa trascinare artisti celeberrimi a cene condominiali e a mini party degli allievi delle locali scuole elementari un grande museo interattivo e multimediale dell’immagine all’aria aperta, di livello internazionale. Trasformando, così, un ghetto in un luogo di incontro, turismo, cultura. Ammirevole. Davvero. Ciao e grazie
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