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dal Secolo d'Italia di mercoledì 12 settembre 2007
enticato Peter Pan dell’arte, la cui biografia, ad opera di John Gruen, è stata da poco e per la prima volta tradotta in italiano (Keith Haring, Baldini Castoldi, p. 266, € 20,00). Com’ebbe a dire William Burroghs, scrittore maledetto della beat generation: «Si può guardare un girasole e non pensare a Van Gogh? No. Esattamente allo stesso modo nessuno può entrare nella metropolitana di New York senza pensare a Keith Haring». Già, perché da lì partì, a metà degli anni Settanta, l’impresa – tutt’altro che facile – di indirizzare il disagio metropolitano in compiuta espressione culturale, di elevare il graffitismo underground ad arte apprezzata in tutto il mondo, spalancando per centinaia di writers ribelli le porte, sino a quel momento inaccessibili, di musei e gallerie. Sfidando le autorità come le baronie, non certo coltivando, diremmo oggi, i salotti, né tanto meno andando incontro ai desiderata dei critici. «Pensare che il pubblico non apprezzi l’ar
te perché non la capisce, può significare che sia l’artista a prosperare in questa “conoscenza dell’arte autoproclamata” che alla fine è una grande stronzata. Mi è sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi. L’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare». Erede della pop-art di Andy Warhol, Haring concepisce l’arte come work in progress, esibizione e spettacolo del fare, esplosione di vitalismo. La sua filosofia è chiara: «Un muro è fatto peressere disegnato, un sabato sera per far baldoria e la vita per essere celebrata».
un nuovo linguaggio urbano, un universo di ominidi in movimento, un bestiario fantastico animato da sagome dall’apparenza infantili, caratterizzate da un segno nero che richiama esplicitamente il fumetto. Le sue creazioni, dagli uomini radianti ai cani che abbaiano alla televisione, sono entrate nell’immaginario collettivo e si ritrovano ovunque, dalle tazzine di caffè alla pubblicità, icone di massa in cui è spontaneo riconoscersi. Il bambino a carponi, la piramide, i dischi volanti, le figure umane che si abbracciano, amano, danzano e baciano, sottolineano la necessità di trasmettere uno stato positivo, creativo. L’intera l’opera di Haring si fonda proprio su questo assunto: stimolando l’immaginazione si possono influenzare positivamente gli uomini e cambiare il mondo in meglio, a partire dai giovani. Non è un caso che l’arte di Haring sia in gran parte dedicata proprio ai bambini: «I bebè rappresentano la possibilità del futuro, di come potremmo essere perfetti. Non c’è mai nulla di negativo in un neonato, nulla. La ragione per la quale il bebè è diventato il mio logo o la mia firma è che si tratta dell’esperienza più pura e positiva dell’esistenza umana». Nei suoi disegni, sospesi tra suggestioni primordiali e futuristiche, affronta l’attualità: il nucleare, l’aparthied, l’orrore dell’Aids, la m
alattia che scriverà la parola fine ad una vita consumata all’insegna della velocità. Dopo il liceo frequenta l’Ivy School of Professional Art di Pittsburgh e la scuola di Commercial Art, ma il richiamo, prima della strada – gira il paese in autostop sull’onda della contestazione giovanile – e poi di New York, è troppo forte. Nei primi anni Ottanta le sue opere attraversano l’oceano: espone a San Paolo del Brasile, Londra, Tokyo, Roma, Milano, Parigi, Berlino – rappresentando sul famigerato muro dei bambini che si tengono per mano – mentre ad Harlem realizzerà un enorme Crack is wack (il crack è una porcheria). La consacrazione definitiva arriva nel ’86, quando dà vita nella grande mela al suo celebre Pop Shop (due anni dopo ne aprirà un altro a Tokyo), negozio dove è possibile vedere l’artista al lavoro e acquistare gadget con le sue opere riprodotte in serie: graffiti stampati su orologi, magliette, poster, felpe e gadget d’ogni tipo. Migliaia sono le persone che hanno indossato le sue T-shirts ed egli stesso le ha spesso sfoggiate divertito, protagonista assoluto e consapevole dell’art business.
lla pubblicità – si riduca a mera transazione tra soggetti destinati a rimanere distanti – artista e consumatore – e l’arte stessa finisca per diventare un “prodotto” usufruibile da soli iniziati o per pochi “danarosi” collezionisti. Il paradosso, semmai, è come l’esteta narcisista e nietzschiano Keith Haring possa rappresentare un mito per tutti coloro che vivono ancora di mitologie ideologiche, vetero-illuministiche, passatiste e anti-immaginifiche.
a ignorarne l’esistenza».
lmente allo studio sembrerebbe essere quella – oltre alla solita campagna di sensibilizzazione – di limitare l’illegalità destinando spazi autorizzati ai writer, con tanto di albo professionale al quale iscriversi. Magari anche un sindacato. Niente di più lontano dal pensiero di Haring – annotato sui suoi Diari (Oscar Mondadori 2001) – sulla detestata mentalità di gruppo «di questa società antindividualista, in cui gli stereotipi hanno tutto il potere e la sovrappopolazione ci ha costretto a credere di esistere in quanto “tipi di persone”. L’arte è individualità. Credo che sia questo il messaggio fondamentale dell’arte moderna. Un’artista distrugge i suoi stessi obiettivi proprio prendendo parte a gruppi, seguendo movimenti, scrivendo manifesti di gruppo e inventando idee collettive. Quella dell’artista è un’affermazione individuale. Nessun artista fa parte di un movimento. A meno che non sia un seguace. E allora non è necessario e della sua arte non abbiamo bisogno. Nel momento in cui si definisce seguace e accetta come vere le verità che non ha esplorato lui stesso, tradisce lo scopo dell’arte come espressione individuale: l’arte in quanto arte».