Dal Secolo d'Italia di sabato 24 maggio 2008
«Dobbiamo avere il coraggio di raccontare verità storiche senza i paraocchi delle ideologie». Marco Tullio Giordana ne ha combinata un’altra (pellicola) delle sue. Da buon artigiano della macchina da presa, ha afferrato il Novecento – la sua materia prima preferita – l’ha impastato con i colori dei destini individuali dei protagonisti e l’ha restituito con immagini come sempre suggestive. Fedele alla realtà dei fatti ma senza rinunciare alla giusta dose di melodramma. Senza incedere nell’antiretorica di maniera di certi giovani registi e soprattutto guardandosi bene dall’emettere sentenze. «Come spettatore – ha detto il regista milanese, classe 1950 – mi sento infastidito quando un film cerca di sostenere una tesi. Spesso il mio viene definito come un esempio di cinema civile, ma è una definizione che mette subito in allarme, come se fosse strumento dell’ideologia. Per me, invece, il cinema deve essere esattamente il contrario: il cinema apre la finestra sul mondo e l’ideologia la restringe».
Ne è venuto fuori Sanguepazzo, il film che racconta la parabola di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (ben interpretati da Luca Zingaretti e Monica Bellucci), le star del cinema “fascista” assassinate a Milano dai partigiani, ai quali si erano consegnati spontaneamente. Si erano conosciuti sul set di Un’avventura di Salvator Rosa di Alessandro Blasetti e da lì era nato il sodalizio professionale e sentimentale che li unì fino a quel 30 aprile del 1945, cinque giorni dopo la Liberazione e all’indomani di Piazzale Loreto, quando pagarono l’imperdonabile colpa di aver prestato la loro popolarità a un fascismo agonizzante.
Presentato fuori concorso al festival di Cannes nei giorni scorsi (dove ha raccolto dieci minuti di applausi), il film è da ieri nelle sale e verrà trasmesso da Raiuno dopo l’estate. Ma non tutti hanno aspettato di vederlo per… stroncarlo. Non che Giordana non se lo aspettasse. Da più di vent’anni cercava di realizzarlo, trovando solo porte chiuse. «Subito dopo Maledetti vi amerò, il mio primo film del 1980, mi resi conto che le difficoltà erano enormi, non si trovavano finanziatori, c’era grande imbarazzo da parte di chi aveva militato nella Resistenza e mi impressionava la rimozione della vicenda di due figure un tempo così popolari. Immagino già quelli che scriveranno: non ho visto il film, però…».
Ne è venuto fuori Sanguepazzo, il film che racconta la parabola di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (ben interpretati da Luca Zingaretti e Monica Bellucci), le star del cinema “fascista” assassinate a Milano dai partigiani, ai quali si erano consegnati spontaneamente. Si erano conosciuti sul set di Un’avventura di Salvator Rosa di Alessandro Blasetti e da lì era nato il sodalizio professionale e sentimentale che li unì fino a quel 30 aprile del 1945, cinque giorni dopo la Liberazione e all’indomani di Piazzale Loreto, quando pagarono l’imperdonabile colpa di aver prestato la loro popolarità a un fascismo agonizzante.
Presentato fuori concorso al festival di Cannes nei giorni scorsi (dove ha raccolto dieci minuti di applausi), il film è da ieri nelle sale e verrà trasmesso da Raiuno dopo l’estate. Ma non tutti hanno aspettato di vederlo per… stroncarlo. Non che Giordana non se lo aspettasse. Da più di vent’anni cercava di realizzarlo, trovando solo porte chiuse. «Subito dopo Maledetti vi amerò, il mio primo film del 1980, mi resi conto che le difficoltà erano enormi, non si trovavano finanziatori, c’era grande imbarazzo da parte di chi aveva militato nella Resistenza e mi impressionava la rimozione della vicenda di due figure un tempo così popolari. Immagino già quelli che scriveranno: non ho visto il film, però…».
Del resto, già Maledetti vi amerò, sua pellicola d'esordio, aveva lasciato il segno. Quel film che riprendeva nel titolo uno dei tanti slogan a effetto del '68, fotografava nel 1980 lo scenario del nuovo decennio in arrivo: crisi pre-reflusso, bisogno esistenziale di superare le ideologie totalizzanti, esigenza diffusa di cancellare i postulati sui quali erano vissute, con risultati drammatici, le generazioni degli anni Settanta. In una frase la chiave del film: «Ne uccide più la depressione che la repressione».
E Maledetti vi amerò si sviluppava attraverso le macerie politiche ed esistenziali scaturite dal decennio di piombo, nel quale si avventura Svitol - il protagonista interpretato da Flavio Bucci - che tornava in Italia dopo anni di permanenza in America Latina. Ad avvertirlo che clima politico e sensibilità collettiva sono radicalmente cambiati durante la sua assenza, ci pensa un commissario di polizia: «Delle tue fottutissime opinioni non ne resta in piedi neanche una». E Svitol ha modo di accorgersene ritrovando le amicizie di un tempo. Chi dirige un negozio di moda, chi ha rilevato l'azienda paterna diventando un grosso imprenditore, chi si dedica alle filosofie orientali e chi è morto stroncato da un'overdose. E c'è anche l'ex partigiano che del proprio passato ricorda solo - quasi un'anticipazione del revisionismo che verrà - la "ferocia" che la sua banda esercitò verso i giovani repubblichini. Delle certezze ideologiche di un tempo rimangono solo esercitazioni salottiere condite di semantica: come la classificazione di ciò che è di destra e ciò che è di sinistra. Nella quale, a sorpresa, tra l'altro Marx tra le cose di destra e Pasolini tra quelle di sinistra. E poi: «Il tè è di sinistra, il caffé è di destra, i preliminari di sinistra e il coito di destra, la doccia di sinistra, il bagno di destra, Di Vittorio di sinistra e Lama di destra...».
E da allora Giordana si è sempre mantenuto su quella linea. Eppure, adesso, il regista, portato in trionfo per oltre due decenni dall’intellighenzia di sinistra per (bellissimi) film come I cento passi e La meglio gioventù, improvvisamente s’è trovato sotto il fuoco amico di chi ancora pensa, evidentemente, che l’unico fascista buono sia quello morto. Prendersi la briga di smascherare l’ennesima leggenda – quella di un Valenti torturatore dei partigiani (con la complicità della Ferida, intenta a ballare durante le sevizie) – deve aver dato fastidio a molti: «Se un film come il mio tocca un nervo scoperto è perché in Italia rimane un’inerzia da guerra civile. Mi dispiace se qualcuno si offende, ma lo considero un atteggiamento residuale, lontano, non moderno, il perseverare nello stesso atteggiamento sbagliato di allora».
Ancora più duro è il regista e sceneggiatore Piero Vivarelli (classe 1927), paroliere di canzoni cult come 24mila baci e Il tuo bacio è come un rock. Alle spalle una lunghissima militanza nel Partito Comunista ma soprattutto ex parà della X Mas e, come tale, testimone oculare di tanti fatti. «Valenti non fu mai un aguzzino – sostiene con forza – parlava alla perfezione cinque lingue e curava le pubbliche relazioni della X Mas. Noi fondamentalmente vivevamo di contrabbando e il ricavato serviva a renderci indipendenti dai tedeschi e da Salò. Capitava che le segnalazioni su depositi di pellicce e oro venissero dalle formazioni Matteotti e parte del ricavato spettava a chi segnalava: diciamo pure che siamo stati i primi a versare tangenti ai socialisti…».
Perché Valenti era sì un “sanguepazzo”, «un modo di dire siciliano – ha spiegato il regista – che indica uno spirito indisciplinato, incontrollabile, una testa calda», ma non un criminale. L’attore – «Sandokan per gli amici perché era un corsaro della vita» – tutto era meno che un fanatico. Ribelle e narcisista, arrogante e vulnerabile, era, semmai, un anarcoide inviso al regime, mai iscritto al fascismo, che aveva trovato nel principe Borghese un irregolare della medesima pasta. Aderì alla Rsi quasi per ripicca nei confronti di chi, superfascista fino al giorno prima, non aveva esitato un attimo a salire sul carro dei nuovi vincitori. Luisa Ferida, all’anagrafe Luigia Manfrini Farnè, aveva debuttato giovanissima con una compagnia teatrale e si era innamorata perdutamente del collega di qualche anno più grande. Bella, sensuale, resa in maniera un po’ caricaturale nel film: a Cannes ha fatto parlare molto la scena del bacio saffico con la meno nota Lavinia Longhi nel ruolo della compagna di Pietro Koch.
«Non ci sono né prove né testimonianze che i due partecipassero alle violenze – ha detto Giordana – né ai rastrellamenti né alle torture». Tanto che nella scena finale Luigi Lo Cascio, nei panni del partigiano Vero, esecutore della sentenza del Cnl, dopo aver sparato ai due protagonisti, s’interroga: «Abbiamo fatto giustizia?». «No, non fu un atto di giustiza – si risponde Giordana –l’attrice fu scagionata dalle accuse da un tribunale e sua madre ricevette per questo un assegno in quanto vittima di guerra. E nessuno ha mai potuto dimostrare la colpevolezza di Osvaldo».
Una pietas che Giordana ha usato anche nel raccontare – nel 1984 – un altro “fascista”: Umberto Orsini, commissario dell’Ufficio politico di Milano durante la repubblica di Salò, protagonista di Notti e nebbie, romanzo di Carlo Castellaneta. «Sembrò strano che io facessi un film come quello, ma mi ha sempre appassionato quel periodo, più Tiro al piccione di Montaldo che non Il Conformista di Bertolucci. Ricordo la saccenza e la sbrigatività di certa critica. Non è stato facile, per chi volesse rendere testimonianza contro l’amnesia generale». Già, occorreva dimenticare l’impazzimento di un paese attraversato da vendette e assassini indiscriminati mossi da motivazioni poco “politiche”. «Definire un film con l'aggettivo politico – conferma Giordana – vuol dire ammazzarlo in partenza». Sbagliano gli attori che mettono la propria arte al servizio della politica. «Dobbiamo occuparci anche e soprattutto della vita, dell’amore, delle cose che ci incantano e ci rendono la vita piacevole. Tutto questo per un lungo periodo non è stato possibile per una forma di autocensura, mentre l’artista deve essere libero di raccontare la sua società». E Giordana l’ha raccontata affollando i suoi film con una galleria di personaggi che attraversano la storia – anzi la Storia – con il coraggio e a volte l’impudenza di chi vuole cambiare, lasciare il segno, non farsi cambiare e piegare dai conformismi, di qualsiasi segno siano.
Ancora più duro è il regista e sceneggiatore Piero Vivarelli (classe 1927), paroliere di canzoni cult come 24mila baci e Il tuo bacio è come un rock. Alle spalle una lunghissima militanza nel Partito Comunista ma soprattutto ex parà della X Mas e, come tale, testimone oculare di tanti fatti. «Valenti non fu mai un aguzzino – sostiene con forza – parlava alla perfezione cinque lingue e curava le pubbliche relazioni della X Mas. Noi fondamentalmente vivevamo di contrabbando e il ricavato serviva a renderci indipendenti dai tedeschi e da Salò. Capitava che le segnalazioni su depositi di pellicce e oro venissero dalle formazioni Matteotti e parte del ricavato spettava a chi segnalava: diciamo pure che siamo stati i primi a versare tangenti ai socialisti…».
Perché Valenti era sì un “sanguepazzo”, «un modo di dire siciliano – ha spiegato il regista – che indica uno spirito indisciplinato, incontrollabile, una testa calda», ma non un criminale. L’attore – «Sandokan per gli amici perché era un corsaro della vita» – tutto era meno che un fanatico. Ribelle e narcisista, arrogante e vulnerabile, era, semmai, un anarcoide inviso al regime, mai iscritto al fascismo, che aveva trovato nel principe Borghese un irregolare della medesima pasta. Aderì alla Rsi quasi per ripicca nei confronti di chi, superfascista fino al giorno prima, non aveva esitato un attimo a salire sul carro dei nuovi vincitori. Luisa Ferida, all’anagrafe Luigia Manfrini Farnè, aveva debuttato giovanissima con una compagnia teatrale e si era innamorata perdutamente del collega di qualche anno più grande. Bella, sensuale, resa in maniera un po’ caricaturale nel film: a Cannes ha fatto parlare molto la scena del bacio saffico con la meno nota Lavinia Longhi nel ruolo della compagna di Pietro Koch.
«Non ci sono né prove né testimonianze che i due partecipassero alle violenze – ha detto Giordana – né ai rastrellamenti né alle torture». Tanto che nella scena finale Luigi Lo Cascio, nei panni del partigiano Vero, esecutore della sentenza del Cnl, dopo aver sparato ai due protagonisti, s’interroga: «Abbiamo fatto giustizia?». «No, non fu un atto di giustiza – si risponde Giordana –l’attrice fu scagionata dalle accuse da un tribunale e sua madre ricevette per questo un assegno in quanto vittima di guerra. E nessuno ha mai potuto dimostrare la colpevolezza di Osvaldo».
Una pietas che Giordana ha usato anche nel raccontare – nel 1984 – un altro “fascista”: Umberto Orsini, commissario dell’Ufficio politico di Milano durante la repubblica di Salò, protagonista di Notti e nebbie, romanzo di Carlo Castellaneta. «Sembrò strano che io facessi un film come quello, ma mi ha sempre appassionato quel periodo, più Tiro al piccione di Montaldo che non Il Conformista di Bertolucci. Ricordo la saccenza e la sbrigatività di certa critica. Non è stato facile, per chi volesse rendere testimonianza contro l’amnesia generale». Già, occorreva dimenticare l’impazzimento di un paese attraversato da vendette e assassini indiscriminati mossi da motivazioni poco “politiche”. «Definire un film con l'aggettivo politico – conferma Giordana – vuol dire ammazzarlo in partenza». Sbagliano gli attori che mettono la propria arte al servizio della politica. «Dobbiamo occuparci anche e soprattutto della vita, dell’amore, delle cose che ci incantano e ci rendono la vita piacevole. Tutto questo per un lungo periodo non è stato possibile per una forma di autocensura, mentre l’artista deve essere libero di raccontare la sua società». E Giordana l’ha raccontata affollando i suoi film con una galleria di personaggi che attraversano la storia – anzi la Storia – con il coraggio e a volte l’impudenza di chi vuole cambiare, lasciare il segno, non farsi cambiare e piegare dai conformismi, di qualsiasi segno siano.
Nel 1995 realizza Pasolini, un delitto italiano (soggetto di Enzo Siciliano). Nel 2000 vince un David di Donatello per la sceneggiatura de I cento passi, uno dei suoi film più intensi. Sono solo cento sono i passi che – a Cinisi, in provincia di Palermo – separano la casa della famiglia Impastato da quella del potente boss Tano Badalamenti. Ma il giovane Giuseppe (Peppino) Impastato, malgrado sia figlio di mafioso, rifiuta i vantaggi che pure gli offrirebbe quel destino: con alcuni amici fonda un giornale di militanza antimafiosa sul quale titola a tutta pagina “La mafia è una montagna di merda”, un circolo di musica e cultura e soprattutto Radio Aut, una radio di denuncia quotidiana contro i malaffari della mafia, abusivismo e corruzione. Ce n’è per tutti, l’arma è quella “settantasettina” dell’ironia, quella che mette in gioco la vita di chi la esercita. Niente a che vedere con quelle che Giordana liquida «le polemiche pubblicitarie contro la casta» utili soprattutto a vendere libri.
Cinisi diventa “mafiopoli” e Gaetano Badalamenti diventa “Tano Seduto”. La gente si appassiona alle battaglie di questo Don Chisciotte, fisicamente minuto ma dotato di inarrestabile energia. A nulla servirà il tentativo del padre di salvargli la vita. Il vecchio Impastato andrà sino in America a chiedere ai boss di perdonare quel figlio ribelle. Pagheranno entrambi, a distanza di un anno. Peppino seguirà il padre nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, evento – quest’ultimo – che catturerà la grande opinione pubblica lasciando poco più di qualche trafiletto sui quotidiani nazionali alla morte (presentata prima come incidente sul lavoro e successivamente come suicidio) di Impastato, appena trentenne. La realtà verrà fuori dopo: è stato fatto saltare in aria dalla mafia sulle rotaie della ferrovia Palermo-Trapani. «Prima del film – hanno detto i familiari – Peppino era un patrimonio solo nostro, ora, con I cento passi, è diventato di tutti». E proprio in questi giorni, a trent’anni dalla sua morte, l’editore Rubbettino ha mandato in libreria Peppino Impastato. Una vita contro la mafia (pp. 318, euro 15) di Salvo Vitale, amico carissimo di Peppino e compagno di lotte in una Cinisi ammutolita dal terrore. Nel bellissimo libro – cui è allegato un audio CD che raccoglie le registrazioni a Radio Aut dei discorsi antimafia di questo eroe – ne viene ricostruita la figura irregolare quanto scomoda, l’esempio quanto mai attuale in una guerra che non è stata vinta.
Nel 2003 Giordana si ripete con un altro bellissimo film: La meglio gioventù (dal titolo di una raccolta di liriche dell’amato Pasolini ma anche di una vecchia canzone degli alpini). Nel racconto corale, costruito attorno alle vicende della famiglia Carati, il “personale” si intreccia con quarant’anni di storia: dalla metà dei Sessanta fino ai primi del 2000, dall’alluvione di Firenze al Sessantotto, dalla lotta armata a Tangentopoli e al riflusso. Un cast eccezionale. A partire dai fratelli Carati: Matteo (interpretato da Alessio Boni, presente in Sanguepazzo nel ruolo di un regista gay), è di destra – la sceneggiatura ne indica persino le letture preferite: il collabos francese Pierre Drieu La Rochelle – e vivrà con sofferto rigore la contestazione nelle forze dell’ordine; Nicola (Luigi Lo Cascio, il partigiano Vero in Sanguepazzo) è lo studente progressista, tanto onesto da denunciare la moglie terrorista. Solare – «tutto quel che esiste è bello» – e ancora capace di indignazione nei confronti di una società sempre più cinica e senza valori. Diversi eppure complementari. «Era come Achille, coraggioso e triste come lui» così Nicola parla del fratello Matteo – suicidatosi nella notte di capodanno – al nipotino Andrea (il figlio di Matteo, nato dopo la morte del padre). Coraggioso, sì, capace di innamorarsi di una disabile psichica – Giorgia, interpretata da Jasmine Trinca – e di rapirla per sottrarla alla brutalità dell’elettrochoc. Soprattutto Matteo e Nicola hanno una cosa in comune: non si sono limitati a resistere, non si sono fatti da parte, non hanno subito gli eventi. Hanno preso posizione, hanno combattuto. «Almeno finché la carica ribelle non svanisce nella disillusione. C’è chi passa il testimone alla generazione successiva, chi si ferma sfiancato, il film racconta anche questo – ha spiegato Giordana – è l’istantanea di una generazione contraddittoria, sognatrice, ingenua e inopportuna, però mai rassegnata». E di gioventù, di destra o di sinistra che sia, ce n’è ancora tanto bisogno perché la strada del cambiamento è ancora molto lunga. E non è – come troppi credono – in discesa.
Cinisi diventa “mafiopoli” e Gaetano Badalamenti diventa “Tano Seduto”. La gente si appassiona alle battaglie di questo Don Chisciotte, fisicamente minuto ma dotato di inarrestabile energia. A nulla servirà il tentativo del padre di salvargli la vita. Il vecchio Impastato andrà sino in America a chiedere ai boss di perdonare quel figlio ribelle. Pagheranno entrambi, a distanza di un anno. Peppino seguirà il padre nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, evento – quest’ultimo – che catturerà la grande opinione pubblica lasciando poco più di qualche trafiletto sui quotidiani nazionali alla morte (presentata prima come incidente sul lavoro e successivamente come suicidio) di Impastato, appena trentenne. La realtà verrà fuori dopo: è stato fatto saltare in aria dalla mafia sulle rotaie della ferrovia Palermo-Trapani. «Prima del film – hanno detto i familiari – Peppino era un patrimonio solo nostro, ora, con I cento passi, è diventato di tutti». E proprio in questi giorni, a trent’anni dalla sua morte, l’editore Rubbettino ha mandato in libreria Peppino Impastato. Una vita contro la mafia (pp. 318, euro 15) di Salvo Vitale, amico carissimo di Peppino e compagno di lotte in una Cinisi ammutolita dal terrore. Nel bellissimo libro – cui è allegato un audio CD che raccoglie le registrazioni a Radio Aut dei discorsi antimafia di questo eroe – ne viene ricostruita la figura irregolare quanto scomoda, l’esempio quanto mai attuale in una guerra che non è stata vinta.
Nel 2003 Giordana si ripete con un altro bellissimo film: La meglio gioventù (dal titolo di una raccolta di liriche dell’amato Pasolini ma anche di una vecchia canzone degli alpini). Nel racconto corale, costruito attorno alle vicende della famiglia Carati, il “personale” si intreccia con quarant’anni di storia: dalla metà dei Sessanta fino ai primi del 2000, dall’alluvione di Firenze al Sessantotto, dalla lotta armata a Tangentopoli e al riflusso. Un cast eccezionale. A partire dai fratelli Carati: Matteo (interpretato da Alessio Boni, presente in Sanguepazzo nel ruolo di un regista gay), è di destra – la sceneggiatura ne indica persino le letture preferite: il collabos francese Pierre Drieu La Rochelle – e vivrà con sofferto rigore la contestazione nelle forze dell’ordine; Nicola (Luigi Lo Cascio, il partigiano Vero in Sanguepazzo) è lo studente progressista, tanto onesto da denunciare la moglie terrorista. Solare – «tutto quel che esiste è bello» – e ancora capace di indignazione nei confronti di una società sempre più cinica e senza valori. Diversi eppure complementari. «Era come Achille, coraggioso e triste come lui» così Nicola parla del fratello Matteo – suicidatosi nella notte di capodanno – al nipotino Andrea (il figlio di Matteo, nato dopo la morte del padre). Coraggioso, sì, capace di innamorarsi di una disabile psichica – Giorgia, interpretata da Jasmine Trinca – e di rapirla per sottrarla alla brutalità dell’elettrochoc. Soprattutto Matteo e Nicola hanno una cosa in comune: non si sono limitati a resistere, non si sono fatti da parte, non hanno subito gli eventi. Hanno preso posizione, hanno combattuto. «Almeno finché la carica ribelle non svanisce nella disillusione. C’è chi passa il testimone alla generazione successiva, chi si ferma sfiancato, il film racconta anche questo – ha spiegato Giordana – è l’istantanea di una generazione contraddittoria, sognatrice, ingenua e inopportuna, però mai rassegnata». E di gioventù, di destra o di sinistra che sia, ce n’è ancora tanto bisogno perché la strada del cambiamento è ancora molto lunga. E non è – come troppi credono – in discesa.