sabato 1 settembre 2007

Chi ha zittito Mr.Clayton?




Il sottotitolo del film parla chiaro: The truth can be adjusted, ovvero la verità può essere aggiustata, ma George Clooney, a quanto pare, non ha imparato bene la lezione, se è rimasto senza parole davanti all'innocente e astuta domanda di una giovane inviata di Cinecittà news. La domanda di Valentina Neri, che tra noi è già un mito, suonava più o meno così: Mr Clooney si vede benissimo che lei si identifica molto in questo avvocato che si ribella al mondo delle multinazionali, ma come concilia questo con la sua vita privata, dove presta la sua bella faccia a un colosso tanto discusso come la Nestlè? Il Grande George prima fa il finto tonto, dicendo che lui non ha mai lavorato per la Nestlè... Peccato che la Nespresso faccia parte del gruppo, gli fa prontamente notare la giornalista. Allora l'attore navigato ci riprova con la carta simpatia: Bisogna pur guadagnare per vivere! Forse voleva essere un battutone, ma esce proprio male e in sala nessuno ride. Senza più ritegno, George perde la pazienza e inacidito replica, tra il gelo generale, che lui non ha risposte per una domanda irritante. Poca fantasia il ragazzo, anche perché non era proprio una questione fuori tema e, se l'improvvisazione non è il suo forte, poteva prepararsi prima una rispostina a caso, tipo "ognuno ha i suoi scheletri". Oppure buttarla sul filosofico con "la contraddizione è alla base della nostra esistenza", ma anche ispirarsi al Vangelo: " chi è senza peccato scagli la prima pietra". Al limite, bastava prendere in prestito con ironia la frase clou di Michael Clayton, quella che vale le 2 ore di film: "I'm the guy you can't Kill, I'm the guy you buy". Solo che in quel momento Clayton stava bleffando, mentre Clooney una tazzina di caffè nell'armadio ce l'ha davvero!

mercoledì 29 agosto 2007

Pino Cacucci, la via italiana al Messico

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 29 agosto 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Spesso le appartenenze ideologiche si annullano di fronte al bisogno esistenziale di un “altrove”. E’ il fascino perenne dell’esotismo, da Salgari a D’Annunzio, da Lawrence d’Arabia e Giuseppe Tucci sino a Hemingway e Chatwin. Ed è anche per questo che un narratore che per la vulgata consolidata starebbe a sinistra può attrarre fatalmente anche chi si colloca dall’altra parte. «Esistono luoghi, i grandi ‘altrove’ che non ci danno requie quando ne siamo lontani, capaci di scatenare pulsioni latenti, forse non di crearne di nuove, ma soltanto – e non è poco – rievocare sensazioni smarrite, assopite, rimaste in qualche meandro ad aspettare la scintilla che le risvegli». E’ quanto scrive Pino Cacucci – il più sudamericano degli scrittori italiani – nella prefazione a La polvere del Messico (Mondadori ’92, Feltrinelli, ’96), uno dei suoi romanzi più intensi. Per alcuni questo grande “altrove” è stato rappresentato dal fascino esotico del Tibet o dell’India, per altri dal “mal d’Africa” dell’epopea coloniale o dal richiamo delle atmosfere magiche del nord Europa, per Cacucci – che è anche sceneggiatore e traduttore appassionato di autori spagnoli e latinoamericani – la «messicanità» è stata il punto di arrivo di un viaggio intrapreso nei primi anni Ottanta «per la voglia di allontanarmi da un’Italia che mi era insopportabile, con tutto il corollario di cialtroneria e cinismo eletti a valori per imbecilli a sedici valvole nel cervello e in divisa da caricature di yuppie». Sulla scia di Hemingway, «il grande amore letterario di una vita», e animato dagli «ideali libertari» di George Orwell, a Cacucci, appartenente a una generazione «colpevole di un eccesso di sensibilità in un’epoca dalla quale ogni sensibilità è bandita», non rimaneva che la fuga per andare alla ricerca di «quella energia vitale che temevo di aver perduto irrimediabilmente».
Così come accade a molti dei protagonisti dei suoi libri, persone normali che provengono da ambienti diversi quanto ordinari, che improvvisamente vengono travolte da situazioni imprevedibili e costrette ad abbandonare le piccole certezze della quotidianità, a confrontarsi – spesso drammaticamente – con la precarietà della vita. E’ quanto accade a Mario, il protagonista di Puerto Escondido (il secondo libro di Cacucci, Interno Giallo ’90, ripubblicato successivamente da Mondadori), al quale Gabriele Salvatores, nella fortunata trasposizione cinematografica del ’92, ha dato la fisicità di Diego Abatantuono (che nel ’95 interpreterà anche Viva San Isidro, tratto da San Isidro Futbòl e prodotto da Salvatores, nei panni di padre Pedro, sanguigno missionario dai metodi sbrigativi). L’unica preoccupazione di Mario è vestire elegantemente, non si fa scrupolo di trattare sprezzantemente i clienti della banca dove gode del gratificante potere di vice direttore, ma quando assiste casualmente ad un omicidio la sua vita si trasforma in un incubo e non gli rimane che cercare rifugio in uno sperduto villaggio messicano (dove incontrerà Alex e Anita, interpretati da Claudio Bisio e Valeria Golino) e ricominciare da zero. In questa idea di “fuga” non c’è nulla di immorale, tanto che Cacucci – nella postfazione a Punti di fuga (l’esilarante storia parigina di Andrea Durante, killer per “bisogno”, disadattato e nostalgico, Mondadori ’92, Feltrinelli 2000) – arriva a teorizzarne l’irrinunciabilità: «Siamo abituati a dare una valenza negativa al concetto di fuga; i sussidiari delle medie ci insegnavano che è un gesto vile, una rinuncia ad affrontare avversità e responsabilità. La fuga è invece l’unica scelta dignitosa quando non puoi cambiare più nulla, e non vuoi neppure lasciarti coinvolgere, diventare complice».
Nato nel ’55 a Alessandria, cresciuto a Chiavari (Ge) e trasferitosi a Bologna nel ’75 per frequentare il Dams, Cacucci trascorre lunghi periodi tra Barcellona e Parigi, «la metropoli dai molti altrove», fino a quando sente che anche l’Europa «decadente e algida, congelata, liofilizzata e “decaffeinata”» gli sta stretta e scopre «sin dal primo viaggio» che il suo grande “altrove” è il Messico con il suo caos apparente che pure emana un’inspiegabile armonia, il paese «che per me rappresenta in modo sublime come la mescolanza di tante razze arricchisca immensamente una terra e un popolo, genti così abituate alla diversità da potersi concedere senza la minima riserva, pur conservando una forma di autodifesa istintiva, il freno naturale di fronte all’invasione di becere way of life geograficamente vicinissime eppure tenute a distanza siderale da millenni di civiltà». Un paese con radici talmente tenaci che neanche cinque secoli di saccheggi e devastazioni sono riusciti a cancellare, «una terra tutt’altro che tenera quando smetti di essere un turista e ti devi procurare da vivere alla giornata». Scegliere il Messico per Cacucci non è sinonimo di disimpegno o di moda improntata al sinistrese terzomondista. Al contrario rappresenta il suo personale modo per esprimere nella scrittura l’insopprimibile bisogno di «contrastare il cinismo, l’intolleranza, il sopruso, l’arroganza dei vincitori di sempre». Nasce da qui il desiderio di recuperare la memoria di vicende passate - «senza la memoria siamo sacchi vuoti che vanno dove li sbatte il vento» - di ritrovare e narrare le tragiche e a volte comiche e assurde storie di ribelli e rivoluzionari, irregolari e sconfitti di ogni causa che non si sentono né perdenti né vinti perchè non hanno rinunciato alla loro dignità. Di fronte a chi, sulla scorta di Brecht, dice che è beata la terra che non ha bisogno di eroi, lui risponde che di eroi invisibili c’è sempre bisogno, indipendentemente dalla nazionalità, che si tratti di leader politici, di indios, di sacerdoti come Alex Zanotelli in Africa o Samuel Ruiz in Chiapas o di chi, come il fascista Paolo Casaroli, «nel dopoguerra, si sentiva tradito dalla realtà quotidiana e costantemente umiliato, in una situazione di sbandamento e crollo di qualsiasi valore, oppressi da una marmaglia di “buffoni” sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori». E’ a tutti loro e alle loro vite spesso dimenticate che Cacucci si rivolge, riconoscendosi nella definizione di Elsa Morante: «Lo scrittore è una persona a cui sta a cuore quanto gli accade intorno fuorché la letteratura». Più che libri di viaggio, infatti, i suoi sono libri di soste, di lunghe fermate durante il tragitto, nelle quali soffermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare, sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, prima ancora che sulle idee, «perché le idee senza le persone sono come bellissime farfalle disseccate in una teca di vetro e quando le metti in pratica le sporchi irrimediabilmente». Per scrivere i suoi romanzi si è servito «dell’immaginario dei film di Sergio Leone, che non mi stancherò mai di rivedere, di letture e ovviamente di un po’ di fantasia in funzione riciclante. Ma ho l’impressione che sarebbero rimasti un magma senz’anima, un’accozzaglia di dati, senza la vita vissuta accanto a genti così diverse da quelle tra cui sono cresciuto». L’approccio di Cacucci si basa su «un gesto di resa incondizionata: la rinuncia a propri schemi e abitudini, liberandosi dall’inconfessata certezza che la realtà sia univoca e unidimensionale, e che tutto possa venire interpretato da un solo modo di guardare».
Per questo, più che scrittore si sente «un raccontatore di storie raccolte da viandante, sia sulla strada che nella memoria e, considerando che la storia la scrivono i vincitori di sempre, le mie semmai sono controstorie, cioè in contrapposizione alle menzogne e alle dimenticanze dei libri di scuola, dei giornali e dei telegiornali». Senza la pretesa di correggere i mali del mondo, né di poter combattere contro un progresso «cui do più spesso una valenza negativa, cioè dell’odierna corsa verso il caos e la devastazione in nome di un aberrante modello economico» ma con la ferma convinzione che ribellarsi sia giusto, pur nella consapevolezza che «opporsi a tutto questo con la penna è poca cosa, e sarebbe stupido illudersi di farlo, anche se con la scrittura di genere e il fumetto si possono provocare piccole incrinature nella sfera gelida di questa che vorrebbero fosse “la migliore delle società possibili”». Un vizio ereditario, quello di non riuscire a rimanere indifferente, di «non badare ai fatti propri», per essere cresciuto in una famiglia di persone che, «nel loro piccolo», non sono mai rimaste indifferenti. Metalmeccanico il padre, tessile la madre, «decenni di lotte e alla fine stessa conclusione: licenziamento per chiusura e tanti saluti». Ha raccontato di aver respirato sin da piccolo «un’aria carica di speranze vicine e lontane, dove si ascoltavano gli echi della rivoluzione cubana e si parlava dei ‘barbudos’ di Castro e Che Guevara come se fossero vicini di condominio». E’ stato anche questo il suo collocarsi a sinistra, forse poco di politico ma molto di esistenziale. E quindi nulla di ideologico. Quando muore il Che, trova i genitori in lacrime: «Con una stretta al cuore, pensai fosse morta una persona cara, pensai ai nonni o allo zio preferito… la stessa tristezza l’avevo respirata dopo l’assassinio di Lumumba, e non saprei neppure spiegare come i miei genitori sapessero della sua esistenza e ne seguissero le gesta, ma per me Lumumba era un nome che evocava dignità per l’Africa». Appropriazione più indebita della nostra non poteva esserci, eppure l’anarchia «esistenziale» di Pino non ci è poi così estranea. E, forse non caso, nel 2004 Cacucci non ha avuto problemi a scrivere l’introduzione a Una passione per Che Guevara di Jean Cau (edito da Vallecchi), scrittore di destra, considerato in Francia un vero e proprio “fascista”, e autore del manuale di resistenza alla decadenza intitolato Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (Ciarrapico edizioni). Comunque, Outland rock, la raccolta di racconti dell’esordio cacucciano, nonostante i suoi vent’anni, è tornata recentemente in libreria grazie a Feltrinelli (Universale Economica, 165 pp. € 7,50, 2007). Nel ’88 l’editore Canalini per pubblicarne la prima edizione con Transeuropa – da cui Pier Vittorio Tondelli negli stessi anni lanciava il progetto “Papergang under 25” – pretese che l’autore cambiasse il nome, o almeno che assumesse una sfumatura straniera: «troppo brutto il nome Pino Cacucci per vendere». Così quella prima raccolta di racconti risultò opera prima di uno sconosciuto P. D. Cacucci. «Dove la D. stava per debosciato» ha raccontato con autoironia lo scrittore. La D. si è smarrita subito per strada, senza rimpianti, ma Cacucci è rimasto l’irriducibile bastiancontrario di allora.

Tributo ad un grande della comicita' italiana

E' difficile dire che tra i due e' piu' esaurito



Di mito in mito (maledettissimi!!)......



E poi una piccola chicca storica

Onore ad Antonio Puerta



Antonio Puerta, giocatore del Siviglia, non è riuscito a sopravvivere dopo l'attacco cardiaco che lo ha colpito nell'ultima partita di campionato contro il Getafe. Puerta era nato a Siviglia il 26 novembre del 1984 e nella sua carriera da calciatore ha sempre indossato la maglia della squadra della sua città. Era uno dei giovani spagnoli piu talentuosi della liga, era ricoverato da sabato scorso presso il reparto di terapia intensiva e le sue condizioni erano peggiorate nelle ultime ore a causa di una disfunzione provocata dal lungo arresto cardiaco. Una camera ardente é stata allestita, in accordo con la famiglia, all'interno dello stadio Ramon Sanchez Pizjuan, e resterà aperta fino a giovedì, migliaia di tifosi hanno reso omaggio per tutta la notte al giocatore. Sarebbe divenuto papà per la prima volta tra poco piu di un mese. Il blog si associa all'immenso dolore dei familiari, dei compagni di squadra, tra cui i nostri Maresca e De Sanctis.
Buon riposo campione. Ti ricorderemo cosi..

martedì 28 agosto 2007

lunedì 27 agosto 2007

FERIE TERMINATE.

Sono tornato a lavoro, proprio stamane, e che dire...si stava meglio con la pancia all'aria, a non fare niente tutto il giorno.
Comunque avevo un rimasuglio feriale (delle ferie) da postare.



--Process Enacted: by Jordan C. Greenhalgh

domenica 26 agosto 2007

.. UN SABATO FRIZZZZANTE..

In questa torrida domenica di Agosto ci troviamo nell'umile dimora trasteverina di Gioggiò, e mentre le donne ( Gio e Paola ) sono uscite a far spesa per la cena a base di Roma e Checca, io sono comodamente adagiato sul divanone in soggiorno minimal chic con tanto di MacBook sulle ginocchia, e plasma 42 pollici con Piccinini Canalis e Morimoto ed i suoi goal da videogame a farmi compagnia, e Baldini e Di Carlo a prendersi a calci. Fin qui tutto ok, ora parliamo della giornata di ieri.



Ieri sono partito per Roma alle 15:00 e immesso sulla Roma-L'Aquila mi accorgo che il traffico in direzione Capitale é devastante. Ok, comodo, aria condizionata, ho vissuto momenti peggiori.. Arrivo a Carsoli e sul Megadisplay delle Autostrade leggo " Rallentamenti per incidente tra Castel Madama e Tivoli ". Mi collego col telefono e noto con piacere che per rallentamenti si intendono 9Km di coda all'altezza di Castel Madama. Decido di uscire prima, mi immetto nella statale ed il traffico è oggettivamente poca cosa.



Passano pochi minuti e dalle bocchette di areazione della Peugeot di Paola comincia ad uscire microiceberg che aggrediscono fatalmente il mio cervello, e sono costretto ad aprire i finestrini per far entrare i 39 gradi acquosi dell'aria romana, che mi permettono di salvarmi dell'ibernazione. L'impianto di areazione é improvvisamente fuori uso, ed in posizione OFF non muta l'erogazione della glaciazione che diventa tempesta tropicale quando apro i vetri. Arrivo a Roma sfinito, prendo Paola ed usciamo. Neanche il tempo di arrivare a destinazione che chiama Gioggio. E' rimasta a piedi con la sua meravigliosa Mini Cooper in prossimità del centro storico. Non c'é problema. Andiamo.



Decido con Paola di tenere i vetri aperti per metà, per miscelare in movimento il clima, quando a metà strada circa il ghiaccio si tramuta in nube tossica, che ci costringe fermare il veicolo e fare marcia indietro in direzione casa. Elettrauto, meccanico, carrozziere. Nessuno dei miei contatti sa darmi indicazioni di sorta.
Ma Gioggiò é sola, nel traffico, a piedi, e noi non possiamo abbandanarla.
Prendiamo il cinquino che avevo lasciato sotto casa di Paola, e speranzosi volgiamo in direzione Piazza Venezia. Gioggiò é disperata, e dopo vari tentativi rinunciamo scoraggiati e stanchi nell'impresa e chiamiamo il servizio ACI, spacciandomi per tale P.P. intestatario di tal num. di Polizza, per porre a male estremo, estremo rimedio.



Questa foto é la sintesi di una giornata movimentata, sfigata, nervosa. Che si conclude però con questo splendido quadretto che dona felicià e riconcilia con la vita. Perché i problemi sono ben altri... Buona Domenica a tutti