Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
«La mia vita ha uno scopo: educare il buon marxista alle contraddizioni che albergano nella sua anima». Lei si definisce marxista? «Sì, ma della sezione gastronomica». In che senso? «C’è una frase di Marx che mi piace: si conosce un paese quando si è mangiato il suo pane e si è bevuto il suo vino». Di chi parliamo? Di Manuel Vásquez Montalbán, Manolo per gli amici, giornalista e scrittore cult, formidabile affabulatore di storie attraversate da una dolorosa quanto umoristica vena di indignazione, sempre temperata dall’autoironia, per ogni forma di ingiustizia. O di Pepe Carvalho, il detective gastronomo, il personaggio che lo ha reso famoso in tutto il mondo? I due si assomigliano, si confondono, si sfottono, si usano l’un l’altro, vanno d’accordo solo quando siedono al ristorante o si mettono all’opera: davanti ai fornelli, posseduti dalla passione per il cibo, capaci di elaborare ricette raffinate e saporite.
Diciamolo subito. Montalbán era comunista e antifranchista. A modo suo, però. Un modo che - non sembri un paradosso - può piacere anche a certa destra. Perché sta dalla parte dei perdenti. C'è una sua passione per la "nobiltà della sconfitta". Tanto che nel suo romanzo Il premio (del '96) non ha nessun problema a inserire come esergo una frase di Julius Evola.
Iniziamo dall’epilogo, come accade nei gialli tradizionali con il ritrovamento della vittima. La morte di Montalbán - nel 2003 - sembra il finale di un romanzo: colto da un malore all’aeroporto di Bangkok, appena tornato da una conferenza letteraria tenuta in Australia, mentre aspetta il volo che l’avrebbe riportato nella sua Barcellona. Aveva 64 anni, spesi a difendere con determinazione la sua idea di una letteratura autenticamente popolare centrata sulla sensualità, poggiata su una precisa teoria: che attraverso il soddisfacimento dei piaceri individuali si possa contribuire al progresso civile. ««La sordidezza del romanzo poliziesco non esclude di puntare sui piaceri. Se James Bond dimostrava un’ottima conoscenza dello champagne, non capivo perché mai Carvalho dovesse rinunciare a spiegarsi la vita mediante le sue passioni gastronomiche, come cuoco e come consumatore, rivendicando obiettivi di giustizia sociale insieme a quelli di giustizia individuale, capitolo di cui fanno parte i piaceri». Entrando subito in rotta di collisione con la sinistra spagnola, editoriale, culturale e politica. «La gastronomia era un tabù della sinistra. Veniva ritenuta una debolezza borghese e come tale disprezzata. Poi è successo che, anche in Italia, mi pare, sono diventati tutti dei gourmet, dei palati scelti». Chissà che non si riferisse a D’Alema, novello Vissani. Ma torniamo a Montalbán. Quando si rivolse ad una casa editrice «progressista» per proporre un giallo, si vide sbattere la porta in faccia. «Mi consigliarono di rivolgermi ad una di destra». La sua reputazione di intellettuale di sinistra, conquistata negli anni giovanili, vacillò pericolosamente. «La critica disse che stavo rovinando una promettente carriera, che la mia era un’operazione commerciale. Mentre avevo solo tentato di divertirmi e di scrollarmi di dosso il peso di una letteratura entrata in un vicolo cieco. Del resto, cinema e canzoni si sono sempre alimentati di letteratura. E’ tempo che la letteratura si alimenti di cinema e canzoni. I programmatori del divorzio tra cultura d’élite e cultura di massa moriranno sotto il peso della massificazione della cultura».
Una delle prime opere del lungo ciclo di Carvalho, Assassinio al Comitato centrale (Sellerio, ’84), fa inorridire Santiago Carrello, segretario del partito comunista spagnolo. «Dal suo punto di vista aveva ragione: lo facevo ammazzare. Naturalmente l’omicidio era anche la metafora dell’uccisione del padre, della ingombrante figura di cui ci si doveva liberare». Attraverso le sue storie stralunate, grottesche e surreali, Montalbán non rinuncia a raccontare, senza peli sulla lingua, venticinque anni di società spagnola, penetrando nei più diversi ambienti sociali, dai bassifondi ai palazzi della politica, camuffando tutto con l’indagine poliziesca, consapevole di come sia il “genere” migliore per sottrarre all’oblio vicende che altrimenti si esaurirebbero nella breve vita dei quotidiani, relegate nelle pagine interne.
Una delle prime opere del lungo ciclo di Carvalho, Assassinio al Comitato centrale (Sellerio, ’84), fa inorridire Santiago Carrello, segretario del partito comunista spagnolo. «Dal suo punto di vista aveva ragione: lo facevo ammazzare. Naturalmente l’omicidio era anche la metafora dell’uccisione del padre, della ingombrante figura di cui ci si doveva liberare». Attraverso le sue storie stralunate, grottesche e surreali, Montalbán non rinuncia a raccontare, senza peli sulla lingua, venticinque anni di società spagnola, penetrando nei più diversi ambienti sociali, dai bassifondi ai palazzi della politica, camuffando tutto con l’indagine poliziesca, consapevole di come sia il “genere” migliore per sottrarre all’oblio vicende che altrimenti si esaurirebbero nella breve vita dei quotidiani, relegate nelle pagine interne.
I temi nascosti tra le righe, pronti ad essere serviti disinvoltamente come uno dei banchetti notturni che animano la vita dei suoi personaggi, sono la crisi delle ideologie e le contraddizioni del capitalismo, i servizi segreti (Pepe è l’unico comunista al mondo ad essere stato anche agente segreto della CIA), il franchismo (che costa allo scrittore tre anni di carcere) e il post franchismo, le guerre e la globalizzazione. Guarda con occhio particolarmente disincantato al “suo” comunismo, sempre più scettico e a disagio nella Spagna di Felipe Gonzales. «Noi abbiamo aspettato a lungo la rivelazione della democrazia, ma non sapevamo che doveva venire il potere, la corruzione».
Non si sente un traditore di tutte le cause, compresa la sua? «Sì – ha risposto Manolo (o Pepe) alla domanda de El Pais – se sto dalla parte degli sconfitti è perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità. Per il resto cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi. Non ho patrie, non voto, non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando posso». Il manifesto di un outsider sornione ma non rassegnato, che ricorre alla battuta tranchant per esprimere la delusione di ideali giovanili ormai consumati, gaudente ma pur sempre nichilista. Detesta i potenti, gli arricchiti (più dei ricchi) e gli intellettuali - «Li conosco come se li avessi partoriti io» - ma questo non fa di lui una crocerossina. «Carvalho può ad ogni momento diventare un anarchico, anzi ideologicamente non avrei dubbi nel definirlo tale, non porta avanti un’analisi della realtà secondo la metodologia marxista, sta spesso dalla parte degli ultimi e per questo non si distacca troppo dall’avere una sensibilità alla Dostoevskij». Arriviamo così ad un punto chiave: il tormentato rapporto di Carvalho con i libri. La sua biblioteca personale ne conta(va) tremilacinquecento. Questo prima che si determinasse a bruciarne uno al giorno per accendere il camino. Perché ne ha letti tanti ma non gli hanno insegnato a vivere. «La cultura è come un cattivo filtro, che impedisce una reazione immediata alla vita, aveva falsificato la mia sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo. I libri non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte». Così finiscono in fumo «le letture di qualsiasi buon comunista clandestino spagnolo». A salvarsi è solo uno scrittore i cui protagonisti sono forgiati nell’avventura e avvezzi al pericolo, Joseph Conrad. «Quando i libri bruciano nei miei racconti - ha spiegato Montalbán - è per provocare. Brucia Engels per provocare i marxisti. Brucia Cervantes per provocare i cervantisti, una setta, una piccola industria culturale, come la setta di Joyce e degli altri scrittori, le piccole industrie culturali, dove mi piace molto creare un piccolo disturbo, uno scherzo».
E’ opinione diffusa che gli scrittori continuino a vivere nei loro libri, negli universi animati che hanno creato. Ed è vero, Pepe Carvalho gode di ottima salute, le sue (dis)avventure continuano ad arrivare in libreria regolarmente, per la gioia dei tantissimi lettori, mai stanchi di appassionarsi a queste storie sbicchierate disegnate con rigogliosa fantasia catalana. Coetaneo del suo autore (nato nel ’39, anno che segnò la fine della guerra civile), e cresciuto nello stesso mondo, la Barcellona del Barrio Chino, il quartiere cinese ad ovest delle Ramblas, in edifici fatiscenti ancora segnati dai bombardamenti e abitati dai perdenti (le cui leggende hanno animato le loro infanzie), José Carvalho Touron, origini galiziane, laureato, cuoco e filosofo è apparso nel ’70 dentro un romanzo visionario sperimentale che si intitolava Io ho ucciso Kennedy (arrivato in Italia nel 2001, Feltrinelli), come poliziotto al servizio del presidente, salvo poi assassinarlo. «Quando successivamente ho voluto scrivere un romanzo più realistico, critico e sociale, ho recuperato questo personaggio sottoponendolo ad una sorta di operazione chirurgica ed è diventato investigatore». Il rifiuto del comunismo, per Pepe, coincide con la separazione dalla moglie Muriel, che ne è talmente fanatica da farglielo odiare. Va a lavorare negli Stati Uniti come lettore di spagnolo in un’università del Middle West e si ritrova arruolato nell’Intelligence Service. Più tardi torna in Spagna, dove inizierà la sua attività investigativa, inseguito – neanche a dirlo – dalla Cia stessa. Sempre più perplesso ma mai veramente sconfitto, consapevole che presto «i detective saranno sostituiti dalle multinazionali dello spionaggio». Eccezionali anche i comprimari: l’amata Charo, la prostituta con la quale ha una relazione irregolare per vent’anni, José Plegamans Betriu, scassinatore di macchine conosciuto in carcere, detto Biscuter, nomignolo che fa riferimento all’utilitaria tanto in voga in spagna negli anni Cinquanta, cuoco e segretario personale, Bromuro, il lustrascarpe spione che vive delle sua mance e tanti altri.
La consacrazione carvalhesca arriva nel ’79 con Mari del Sud, premio Planeta e Internazionale di letteratura poliziesca in Francia. Riconoscimenti – ne incasserà una dozzina – che accetta con la solita ironia: «Noi scrittori desideriamo i premi e al tempo stesso li temiamo. Non so se dire “Grazie tante” oppure “Aiuto, sto andando al mio funerale”, perché devo rinunciare alla mia aura di scrittore sprezzante nei confronti della società letteraria». Di sicuro è felice del Premio Recalmare, assegnatogli nel ’89 grazie a Leonardo Sciascia, presidente della giuria e suo mentore italiano. In Italia aveva fatto la sua prima apparizione in Un delitto per Pepe Carvalho (Editori Riuniti ’82) e aveva già conquistato molti lettori, tra cui Andrea Camilleri, che ha battezzato il suo commissario Salvo Montalbano proprio in onore dell’amico Manuel Vàsquez Montalbán: «Perché proprio leggendo un suo libro capii come dovevo strutturare un libro giallo». Nei romanzi di Montalbán non c’è quasi mai un lieto fine infiocchettato, si ride ma rimane una sensazione di amarezza che forse coincide con quella dell’autore, di chi – in fondo – non si è mai preso troppo sul serio: «La nostra è una letteratura di diagnosi sociale, ma lo scrittore non è né un maestro né un propagandista. A volte m’è capitato di paragonare l’impulso di scrivere a quello dell’esibizionista completamente nudo sotto il suo impermeabile. L’esibizionista ha il coraggio di aprire il suo impermeabile in pubblico, noi scrittori cerchiamo di coprire le nudità con il fogliame appassito delle parole».
Non si sente un traditore di tutte le cause, compresa la sua? «Sì – ha risposto Manolo (o Pepe) alla domanda de El Pais – se sto dalla parte degli sconfitti è perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità. Per il resto cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi. Non ho patrie, non voto, non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando posso». Il manifesto di un outsider sornione ma non rassegnato, che ricorre alla battuta tranchant per esprimere la delusione di ideali giovanili ormai consumati, gaudente ma pur sempre nichilista. Detesta i potenti, gli arricchiti (più dei ricchi) e gli intellettuali - «Li conosco come se li avessi partoriti io» - ma questo non fa di lui una crocerossina. «Carvalho può ad ogni momento diventare un anarchico, anzi ideologicamente non avrei dubbi nel definirlo tale, non porta avanti un’analisi della realtà secondo la metodologia marxista, sta spesso dalla parte degli ultimi e per questo non si distacca troppo dall’avere una sensibilità alla Dostoevskij». Arriviamo così ad un punto chiave: il tormentato rapporto di Carvalho con i libri. La sua biblioteca personale ne conta(va) tremilacinquecento. Questo prima che si determinasse a bruciarne uno al giorno per accendere il camino. Perché ne ha letti tanti ma non gli hanno insegnato a vivere. «La cultura è come un cattivo filtro, che impedisce una reazione immediata alla vita, aveva falsificato la mia sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo. I libri non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte». Così finiscono in fumo «le letture di qualsiasi buon comunista clandestino spagnolo». A salvarsi è solo uno scrittore i cui protagonisti sono forgiati nell’avventura e avvezzi al pericolo, Joseph Conrad. «Quando i libri bruciano nei miei racconti - ha spiegato Montalbán - è per provocare. Brucia Engels per provocare i marxisti. Brucia Cervantes per provocare i cervantisti, una setta, una piccola industria culturale, come la setta di Joyce e degli altri scrittori, le piccole industrie culturali, dove mi piace molto creare un piccolo disturbo, uno scherzo».
E’ opinione diffusa che gli scrittori continuino a vivere nei loro libri, negli universi animati che hanno creato. Ed è vero, Pepe Carvalho gode di ottima salute, le sue (dis)avventure continuano ad arrivare in libreria regolarmente, per la gioia dei tantissimi lettori, mai stanchi di appassionarsi a queste storie sbicchierate disegnate con rigogliosa fantasia catalana. Coetaneo del suo autore (nato nel ’39, anno che segnò la fine della guerra civile), e cresciuto nello stesso mondo, la Barcellona del Barrio Chino, il quartiere cinese ad ovest delle Ramblas, in edifici fatiscenti ancora segnati dai bombardamenti e abitati dai perdenti (le cui leggende hanno animato le loro infanzie), José Carvalho Touron, origini galiziane, laureato, cuoco e filosofo è apparso nel ’70 dentro un romanzo visionario sperimentale che si intitolava Io ho ucciso Kennedy (arrivato in Italia nel 2001, Feltrinelli), come poliziotto al servizio del presidente, salvo poi assassinarlo. «Quando successivamente ho voluto scrivere un romanzo più realistico, critico e sociale, ho recuperato questo personaggio sottoponendolo ad una sorta di operazione chirurgica ed è diventato investigatore». Il rifiuto del comunismo, per Pepe, coincide con la separazione dalla moglie Muriel, che ne è talmente fanatica da farglielo odiare. Va a lavorare negli Stati Uniti come lettore di spagnolo in un’università del Middle West e si ritrova arruolato nell’Intelligence Service. Più tardi torna in Spagna, dove inizierà la sua attività investigativa, inseguito – neanche a dirlo – dalla Cia stessa. Sempre più perplesso ma mai veramente sconfitto, consapevole che presto «i detective saranno sostituiti dalle multinazionali dello spionaggio». Eccezionali anche i comprimari: l’amata Charo, la prostituta con la quale ha una relazione irregolare per vent’anni, José Plegamans Betriu, scassinatore di macchine conosciuto in carcere, detto Biscuter, nomignolo che fa riferimento all’utilitaria tanto in voga in spagna negli anni Cinquanta, cuoco e segretario personale, Bromuro, il lustrascarpe spione che vive delle sua mance e tanti altri.
La consacrazione carvalhesca arriva nel ’79 con Mari del Sud, premio Planeta e Internazionale di letteratura poliziesca in Francia. Riconoscimenti – ne incasserà una dozzina – che accetta con la solita ironia: «Noi scrittori desideriamo i premi e al tempo stesso li temiamo. Non so se dire “Grazie tante” oppure “Aiuto, sto andando al mio funerale”, perché devo rinunciare alla mia aura di scrittore sprezzante nei confronti della società letteraria». Di sicuro è felice del Premio Recalmare, assegnatogli nel ’89 grazie a Leonardo Sciascia, presidente della giuria e suo mentore italiano. In Italia aveva fatto la sua prima apparizione in Un delitto per Pepe Carvalho (Editori Riuniti ’82) e aveva già conquistato molti lettori, tra cui Andrea Camilleri, che ha battezzato il suo commissario Salvo Montalbano proprio in onore dell’amico Manuel Vàsquez Montalbán: «Perché proprio leggendo un suo libro capii come dovevo strutturare un libro giallo». Nei romanzi di Montalbán non c’è quasi mai un lieto fine infiocchettato, si ride ma rimane una sensazione di amarezza che forse coincide con quella dell’autore, di chi – in fondo – non si è mai preso troppo sul serio: «La nostra è una letteratura di diagnosi sociale, ma lo scrittore non è né un maestro né un propagandista. A volte m’è capitato di paragonare l’impulso di scrivere a quello dell’esibizionista completamente nudo sotto il suo impermeabile. L’esibizionista ha il coraggio di aprire il suo impermeabile in pubblico, noi scrittori cerchiamo di coprire le nudità con il fogliame appassito delle parole».
2 commenti:
Devo dire che l'articolo é impeccabile, mentre purtroppo la mia conoscenza sull'autore é limitata, provvederò subito..
Buon lavoro
Grazie. E' che non c'è mai abbastanza tempo per i piaceri e la lettura rientra tra questi...
Cmq Carvalho merita, si fa leggere senza tropoìpo impegno...
Ciao
Posta un commento