mercoledì 20 agosto 2008

from Raggae to Record



I velocisti crescono nella terra delle patate, Trelawny. Giamaica, Contea di Nord Est, il posto dove è nato Usain Bolt e cercare l'indirizzo esatto è difficile perchè ora non c'è il nome della strada e nessun numero a segnare la porta. La casa è rosa, un incrocio tra un bungalow e un appartamento, con un porcellino disegnato all'esterno e la padella di un satellite piazzata sul tetto. Primo segno che il ragazzo ce l’ha fatta e i soldi veri stanno per arrivare. Il capofamiglia è miss Lily, la zia di Bolt, quella che ancora oggi organizza la raccolta della canna da zucchero e dirige il movimento secco dei ragazzi con il macete. Non solo, è anche la zietta reggae, la donna che gli ha insegnato a ballare. Poi ci sono Jennifer e Wellesley, i genitori. Lei è a Pechino e mescola lacrime e ricordi di infanzia. Ha chiamato il figlio Usain per assecondare una predizione: «Un bambino mi ha toccato la pancia quando ero incinta e mi ha detto, se è maschio chiamalo Usain». E lui sbuca fuori, un gigante anche da neonato. Incrocia lo sport alle elementari e si butta sul cricket, per l’eleganza. Si immagina vestito di bianco e prova scene epiche per strada, con una racchetta sfasciata come mazza. A 10 anni rincorre una palla persa e gli amichetti gli spiegano subito che è ora di cambiare sogno. Dodicenne, è già imbattibile. Gare sull’erba e il primo segno di una sicurezza serena: «Dopo la prossima gara mi compri le scarpe con i chiodi, perché arrivo primo».



Nel 2002 diventa campione della scuola, 200 e 400 metri e due anni dopo realizza un record ai Mondiali juniores, 200 metri in 19"93. Fuori dal negozio dell’angolo, quello di Wellesley Bolt, c’è la coda. Università americane, sponsor e tv e lui le lascia in fila: Bolt firma un contratto con la Puma, è il marchio che gestisce quasi tutti i giamaicani, quindi una formalità. Ce n’è uno nuovo che va veloce, si mette sotto osservazione e se merita lo si fa entrare nel gruppo giallo, verde e nero. Bolt ancora non sa che significa correre per una bandiera, ma conosce chi ha intorno, sprinter nati a Trelawny come lui: Veronica Campbell Brown, campionessa mondiale di 100 e 200 e Michael Frater, sesto nella finale di Pechino. È per non sfigurare che si mette sotto, il tecnico Glen Mills lo addestra ai 200 e prova a inculcargli il giro di pista, senza successo. Il talento non vuole correre i 400: «Non mi divertono e ci si stanca troppo». La gara che lo farà entrare nella storia arriva così, un baratto con l’allenatore per dimostrare che il rifiuto non è pigrizia, ma scelta tattica. Bolt diventa il più giovane finalista di un Mondiale nei 200 metri, nel 2005, a Helsinki, purtroppo si infortuna e sparisce. Nel 2007 prende l’argento dietro a Tyson Gay e lì inizia il tira e molla da cui esce accelerando. I primi 100 li cronometra Mills per farlo stare zitto: «Vediamo come te la cavi». 10"03 con una tecnica che il suo staff ancora oggi definisce «terribile», abbastanza per vincere la partita e accantonare i 400.



Il tre maggio 2008, a Kingstone, corre in 9"76, è il terzo tentativo nello sprint e il secondo tempo al mondo. Non ci vuole molto a passare al record, meno di un mese e Bolt si mangia il nome di Powell, sotto l’uragano, a New York. Già lo chiamavano lampo, da quella sera di acqua e tamburi diventa l’uomo più veloce del mondo, titolo che sarà difficile rubargli. La gara difficile si porta dietro l’oro di Pechino, perché continuano a rimandare lo start: atleti nervosi, Tyson Gay agitato, pubblico stufo. Sulle gradinate rimangono solo i giamaicani, a saltellare con i vestiti zuppi. Vedono un lampo, un’apparizione durata 9"72 secondi nel momento in cui chiunque altro accusa il peso del freddo e dello sfinimento. Bolt rientra a Kingstone con la fanfara, accolto dal primo ministro. Eppure la Giamaica ha già avuto in casa il record del mondo, da anni si coccola l’incompiuto Powell, solo che per Usain raddoppiano le feste. Asafa è introverso, impaurito e fragile mentre la nuova scheggia ascolta dance giamaicana e mangia patate di Trelawny anche a colazione, e vuole fare il Dj. Non ha più bisogno di correre per la bandiera, oggi è il simbolo del Paese. Mr velocità che ascolta Elephant Man e Serani, tutta roba locale, ed esalta gli eroi della patria: McKenley, argento nei 100 a Helsinki 1952 e Don Quarrie, oro nei 200 a Montreal 1976. Se deve trovare un esempio però sceglie l’America: «Michael Johnson e il suo capolavoro, il record dei 200 ad Atlanta 1996, 19"32».



Usain oggi si è ripetuto nei 200 stabilendo anche sulla doppia distanza il nuovo record del mondo in 19”30, due centesimi in meno, precedendo tutti i rivali di almeno di una decina di metri. Corri ragazzo, corri ..

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