Spesso le appartenenze ideologiche si annullano di fronte al bisogno esistenziale di un “altrove”. E’ il fascino perenne dell’esotismo, da Salgari a D’Annunzio, da Lawrence d’Arabia e Giuseppe Tucci sino a Hemingway e Chatwin. Ed è anche per questo che un narratore che per la vulgata consolidata starebbe a sinistra può attrarre fatalmente anche chi si colloca dall’altra parte. «Esistono luoghi, i grandi ‘altrove’ che non ci danno requie quando ne siamo lontani, capaci di scatenare pulsioni latenti, forse non di crearne di nuove, ma soltanto – e non è poco – rievocare sensazioni smarrite, assopite, rimaste in qualche meandro ad aspettare la scintilla che le risvegli». E’ quanto scrive Pino Cacucci – il più sudamericano degli scrittori italiani – nella prefazione a La polvere del Messico (Mondadori ’92, Feltrinelli, ’96), uno dei suoi romanzi più intensi. Per alcuni questo grande “altrove” è stato rappresentato dal fascino esotico del Tibet o dell’India, per altri dal “mal d’Africa” dell’epopea coloniale o dal richiamo delle atmosfere magiche del nord Europa, per Cacucci – che è anche sceneggiatore e traduttore appassionato di autori spagnoli e latinoamericani – la «messicanità» è stata il punto di arrivo di un viaggio intrapreso nei primi anni Ottanta «per la voglia di allontanarmi da un’Italia che mi era insopportabile, con tutto il corollario di cialtroneria e cinismo eletti a valori per imbecilli a sedici valvole nel cervello e in divisa da caricature di yuppie». Sulla scia di Hemingway, «il grande amore letterario di una vita», e animato dagli «ideali libertari» di George Orwell, a Cacucci, appartenente a una generazione «colpevole di un eccesso di sensibilità in un’epoca dalla quale ogni sensibilità è bandita», non rimaneva che la fuga per andare alla ricerca di «quella energia vitale che temevo di aver perduto irrimediabilmente».
Così come accade a molti dei protagonisti dei suoi libri, persone normali che provengono da ambienti diversi quanto ordinari, che improvvisamente vengono travolte da situazioni imprevedibili e costrette ad abbandonare le piccole certezze della quotidianità, a confrontarsi – spesso drammaticamente – con la precarietà della vita. E’ quanto accade a Mario, il protagonista di Puerto Escondido (il secondo libro di Cacucci, Interno Giallo ’90, ripubblicato successivamente da Mondadori), al quale Gabriele Salvatores, nella fortunata trasposizione cinematografica del ’92, ha dato la fisicità di Diego Abatantuono (che nel ’95 interpreterà anche Viva San Isidro, tratto da San Isidro Futbòl e prodotto da Salvatores, nei panni di padre Pedro, sanguigno missionario dai metodi sbrigativi). L’unica preoccupazione di Mario è vestire elegantemente, non si fa scrupolo di trattare sprezzantemente i clienti della banca dove gode del gratificante potere di vice direttore, ma quando assiste casualmente ad un omicidio la sua vita si trasforma in un incubo e non gli rimane che cercare rifugio in uno sperduto villaggio messicano (dove incontrerà Alex e Anita, interpretati da Claudio Bisio e Valeria Golino) e ricominciare da zero. In questa idea di “fuga” non c’è nulla di immorale, tanto che Cacucci – nella postfazione a Punti di fuga (l’esilarante storia parigina di Andrea Durante, killer per “bisogno”, disadattato e nostalgico, Mondadori ’92, Feltrinelli 2000) – arriva a teorizzarne l’irrinunciabilità: «Siamo abituati a dare una valenza negativa al concetto di fuga; i sussidiari delle medie ci insegnavano che è un gesto vile, una rinuncia ad affrontare avversità e responsabilità. La fuga è invece l’unica scelta dignitosa quando non puoi cambiare più nulla, e non vuoi neppure lasciarti coinvolgere, diventare complice».
Nato nel ’55 a Alessandria, cresciuto a Chiavari (Ge) e trasferitosi a Bologna nel ’75 per frequentare il Dams, Cacucci trascorre lunghi periodi tra Barcellona e Parigi, «la metropoli dai molti altrove», fino a quando sente che anche l’Europa «decadente e algida, congelata, liofilizzata e “decaffeinata”» gli sta stretta e scopre «sin dal primo viaggio» che il suo grande “altrove” è il Messico con il suo caos apparente che pure emana un’inspiegabile armonia, il paese «che per me rappresenta in modo sublime come la mescolanza di tante razze arricchisca immensamente una terra e un popolo, genti così abituate alla diversità da potersi concedere senza la minima riserva, pur conservando una forma di autodifesa istintiva, il freno naturale di fronte all’invasione di becere way of life geograficamente vicinissime eppure tenute a distanza siderale da millenni di civiltà». Un paese con radici talmente tenaci che neanche cinque secoli di saccheggi e devastazioni sono riusciti a cancellare, «una terra tutt’altro che tenera quando smetti di essere un turista e ti devi procurare da vivere alla giornata». Scegliere il Messico per Cacucci non è sinonimo di disimpegno o di moda improntata al sinistrese terzomondista. Al contrario rappresenta il suo personale modo per esprimere nella scrittura l’insopprimibile bisogno di «contrastare il cinismo, l’intolleranza, il sopruso, l’arroganza dei vincitori di sempre». Nasce da qui il desiderio di recuperare la memoria di vicende passate - «senza la memoria siamo sacchi vuoti che vanno dove li sbatte il vento» - di ritrovare e narrare le tragiche e a volte comiche e assurde storie di ribelli e rivoluzionari, irregolari e sconfitti di ogni causa che non si sentono né perdenti né vinti perchè non hanno rinunciato alla loro dignità. Di fronte a chi, sulla scorta di Brecht, dice che è beata la terra che non ha bisogno di eroi, lui risponde che di eroi invisibili c’è sempre bisogno, indipendentemente dalla nazionalità, che si tratti di leader politici, di indios, di sacerdoti come Alex Zanotelli in Africa o Samuel Ruiz in Chiapas o di chi, come il fascista Paolo Casaroli, «nel dopoguerra, si sentiva tradito dalla realtà quotidiana e costantemente umiliato, in una situazione di sbandamento e crollo di qualsiasi valore, oppressi da una marmaglia di “buffoni” sempre pronti a saltare sul carro dei vincitori». E’ a tutti loro e alle loro vite spesso dimenticate che Cacucci si rivolge, riconoscendosi nella definizione di Elsa Morante: «Lo scrittore è una persona a cui sta a cuore quanto gli accade intorno fuorché la letteratura». Più che libri di viaggio, infatti, i suoi sono libri di soste, di lunghe fermate durante il tragitto, nelle quali soffermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare, sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, prima ancora che sulle idee, «perché le idee senza le persone sono come bellissime farfalle disseccate in una teca di vetro e quando le metti in pratica le sporchi irrimediabilmente». Per scrivere i suoi romanzi si è servito «dell’immaginario dei film di Sergio Leone, che non mi stancherò mai di rivedere, di letture e ovviamente di un po’ di fantasia in funzione riciclante. Ma ho l’impressione che sarebbero rimasti un magma senz’anima, un’accozzaglia di dati, senza la vita vissuta accanto a genti così diverse da quelle tra cui sono cresciuto». L’approccio di Cacucci si basa su «un gesto di resa incondizionata: la rinuncia a propri schemi e abitudini, liberandosi dall’inconfessata certezza che la realtà sia univoca e unidimensionale, e che tutto possa venire interpretato da un solo modo di guardare».
Per questo, più che scrittore si sente «un raccontatore di storie raccolte da viandante, sia sulla strada che nella memoria e, considerando che la storia la scrivono i vincitori di sempre, le mie semmai sono controstorie, cioè in contrapposizione alle menzogne e alle dimenticanze dei libri di scuola, dei giornali e dei telegiornali». Senza la pretesa di correggere i mali del mondo, né di poter combattere contro un progresso «cui do più spesso una valenza negativa, cioè dell’odierna corsa verso il caos e la devastazione in nome di un aberrante modello economico» ma con la ferma convinzione che ribellarsi sia giusto, pur nella consapevolezza che «opporsi a tutto questo con la penna è poca cosa, e sarebbe stupido illudersi di farlo, anche se con la scrittura di genere e il fumetto si possono provocare piccole incrinature nella sfera gelida di questa che vorrebbero fosse “la migliore delle società possibili”». Un vizio ereditario, quello di non riuscire a rimanere indifferente, di «non badare ai fatti propri», per essere cresciuto in una famiglia di persone che, «nel loro piccolo», non sono mai rimaste indifferenti. Metalmeccanico il padre, tessile la madre, «decenni di lotte e alla fine stessa conclusione: licenziamento per chiusura e tanti saluti». Ha raccontato di aver respirato sin da piccolo «un’aria carica di speranze vicine e lontane, dove si ascoltavano gli echi della rivoluzione cubana e si parlava dei ‘barbudos’ di Castro e Che Guevara come se fossero vicini di condominio». E’ stato anche questo il suo collocarsi a sinistra, forse poco di politico ma molto di esistenziale. E quindi nulla di ideologico. Quando muore il Che, trova i genitori in lacrime: «Con una stretta al cuore, pensai fosse morta una persona cara, pensai ai nonni o allo zio preferito… la stessa tristezza l’avevo respirata dopo l’assassinio di Lumumba, e non saprei neppure spiegare come i miei genitori sapessero della sua esistenza e ne seguissero le gesta, ma per me Lumumba era un nome che evocava dignità per l’Africa». Appropriazione più indebita della nostra non poteva esserci, eppure l’anarchia «esistenziale» di Pino non ci è poi così estranea. E, forse non caso, nel 2004 Cacucci non ha avuto problemi a scrivere l’introduzione a Una passione per Che Guevara di Jean Cau (edito da Vallecchi), scrittore di destra, considerato in Francia un vero e proprio “fascista”, e autore del manuale di resistenza alla decadenza intitolato Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo (Ciarrapico edizioni). Comunque, Outland rock, la raccolta di racconti dell’esordio cacucciano, nonostante i suoi vent’anni, è tornata recentemente in libreria grazie a Feltrinelli (Universale Economica, 165 pp. € 7,50, 2007). Nel ’88 l’editore Canalini per pubblicarne la prima edizione con Transeuropa – da cui Pier Vittorio Tondelli negli stessi anni lanciava il progetto “Papergang under 25” – pretese che l’autore cambiasse il nome, o almeno che assumesse una sfumatura straniera: «troppo brutto il nome Pino Cacucci per vendere». Così quella prima raccolta di racconti risultò opera prima di uno sconosciuto P. D. Cacucci. «Dove la D. stava per debosciato» ha raccontato con autoironia lo scrittore. La D. si è smarrita subito per strada, senza rimpianti, ma Cacucci è rimasto l’irriducibile bastiancontrario di allora.
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mercoledì 29 agosto 2007
Pino Cacucci, la via italiana al Messico
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
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