domenica 24 febbraio 2008

Neil Young, l'America che ci piace (di Federico Zamboni)

Un bell'articolo del mio amico Federico Zamboni...
Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 24 febbraio 2008
Di tanto in tanto, se stasera avrete avuto la fortuna di trovare posto al Teatro degli Arcimboldi di Milano, per quest’unica apparizione italiana di Neil Young, chiudete pure gli occhi e assaporate l’impressione che il tempo si sia fermato. Che non sia affatto vero che lui abbia ormai 62 anni e che siano passati quasi quattro decenni da Harvest. La voce è ancora la stessa. Le canzoni – come in Prairie Wind, del 2005 – possiedono ancora lo stesso sapore a metà strada tra serenità e malinconia: la serenità di chi conosce il valore di ciò che ha avuto; la malinconia di chi non disconosce il valore di ciò che ha perso.
Riaprite gli occhi: osservate quest’uomo che è sopravvissuto ad un aneurisma cerebrale e che non fa nulla per nascondere la sua età; quest’uomo che crede nella magia profonda della musica e che non ha mai fatto confusione tra il divertimento sano e l’intrattenimento prefabbricato; quest’uomo che sa (che avverte) quanta storia, quanta tradizione, quanta vita ci sia dentro certi suoni: i singoli brani possono essere nuovi, ma non lo è la terra nella quale sono cresciuti. Neil Young suona i propri pezzi: ma è orgoglioso di imbracciare la chitarra che appartenne ad Hank Williams.
«Cerchiamo di rendere omaggio alla vecchia musa, alla musa che esisteva qui prima: a ciò che accadde in passato, che creò le radici che abbiamo ancora oggi».
L’America migliore. Che conosceva il lavoro duro e lo rispettava. Che sapeva distinguere tra la lotta per la sopravvivenza e quella per la sopraffazione. L’America di origine contadina: che cercava di sfuggire alla povertà per ottenere un po’ di requie e un po’ di gioia, non per sostituire la sobrietà col lusso sfrenato.
Neil Young è canadese, ma ha varcato il confine nel 1965 e si è trasferito definitivamente l’anno successivo. Il richiamo del rock. L’entusiasmo, l’ingenuità, i sogni di una generazione che era convinta di poter cambiare il mondo: milioni di ragazzi e ciascuno ha un cuore; e ogni cuore irradia energia; e l’energia si somma insieme e si moltiplica a dismisura; e cresce, e cresce, e cresce. Unita nella stessa corrente. Proiettata nella stessa direzione.
Come fai a non vederlo? Si abbatterà sulle mura dell’egoismo e dell’indifferenza e le spazzerà via, una volta per tutte. Basta politicanti, basta affaristi, basta Masters of War. Lo Zio Sam non punterà più il dito per spedirti a morire con la scusa della patria. Sulle banconote non ci sarà più la bestemmia “In God We Trust”. Dio non avrà più bisogno di promettere il paradiso o di minacciare l’inferno, per ottenere un po’ di buona volontà dagli esseri umani. Allora, finalmente, il sogno collettivo potrà di nuovo scindersi (sciogliersi) in una miriade di sogni individuali: milioni di ragazzi – e forse anche di adulti, se comprenderanno di essere finalmente liberi come non lo sono mai stati – e ciascuno avrà il suo. Da vivere, da benedire, da cantare. Da offrire, non da imporre.
«Io e la mia generazione capiamo quella frase: pace e amore. Noi eravamo così, ma oggi è facile prendere tutto questo in giro. I media sono come il cortile di un liceo: un ragazzo che soffre di una deformazione ai piedi entra e tutti iniziano a prenderlo in giro. Se gli anni Sessanta sono stati sopravvalutati non so proprio cosa si potrebbe dire di altri decenni e di altre generazioni. Davvero sono sopravvalutati? Rispetto a cosa?»
La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori. E i vincitori hanno le risposte bell’e pronte. «Il punto, Neil, è che avete perso. Volevate cambiare il mondo e non ci siete riusciti. E se non ci siete riusciti significa che non eravate poi così speciali. Ecco, Neil. Significa questo, “sopravvalutati”».
Punti di vista. E modi di essere. Ci sono quelli che tifano per la squadra più forte e quelli che si tengono stretta la squadra del cuore, dovunque vada a finire. E figurati, poi, se si rendono conto che il campionato è truccato.
Neil Young, per fortuna, appartiene alla seconda specie. Un idealista coi piedi per terra. Uno che non scambia gli ideali per canditi (morbidi-morbidi, dolci-dolci) e che è pronto a pagare il biglietto anche se non gli garantisci per iscritto l’happy end. Per istinto o per esperienza – e più probabilmente per una robusta miscela di entrambi – sa che l’unica maniera di non avere rimpianti è mantenersi fedeli a ciò in cui si crede. Se c’è da lottare, si lotta. Se c’è da mandare giù qualche (qualche?) boccone amaro, lo si manda giù. Ma quando finalmente si vince, nel modo pulito e scintillante di chi ha fatto davvero del suo meglio, senza concedere nemmeno un sissignore agli arbitri, senza dedicare nemmeno una canzone alla moglie (insopportabile) dell’impresario, allora sì che ne è valsa la pena. Allora sì che è festa grande.



Neil Young, a tutt’oggi, ha pubblicato all’incirca 40 album da solista. Più i cinque con Crosby, Stills e Nash. Più quello col solo Stephen Stills. Più i tre coi Buffalo Springfield, a inizio carriera. Una produzione vastissima in cui è difficile orizzontarsi anche per gli esperti. Ci sono album annunciati e non usciti; ce ne sono altri che sono apparsi solo in alcuni Paesi, o che sono stati pubblicati in versioni diverse da mercato a mercato. Persino l’accuratissima Discografia illustrata di Stefano Frollano (Coniglio Editore, 2006, pagg. 334, € 21,50) non fa che confermarlo: rileva tutto ma non azzarda tabelle riassuntive, nonostante l’autore si sia imposto, nell’ammirevole tentativo di sbrogliare la matassa, la più puntigliosa e infaticabile delle gimcane tra codici alfanumerici e copertine differenziate a seconda del luogo di uscita, e vinili colorati oppure no, e chissà quanti altri dettagli editoriali più o meno (ir)rilevanti.
Bene. In una discografia tanto ampia, e tutt’altro che omogenea, i rischi sono enormi. Rischi sul piano artistico, essendo estremamente difficile spostarsi con la stessa padronanza, e quindi con la stessa efficacia, da un genere all’altro. E rischi sul piano commerciale, visto che il pubblico adora le novità solo in una prima fase – quando ancora non sa chi diavolo sia l’ultimo venuto e, perciò, è ancora disposto a lasciarsi sorprendere – mentre in seguito tende a preferire che le cose rimangano come sono. Rischi che hanno seminato, anche tra gli estimatori più attenti, e più duttili, perplessità e controversie: meglio le ballate acustiche o le sfuriate elettriche? Meglio le riflessioni esistenziali o le requisitorie politiche? Meglio, a parità di atmosfere, i brani di Harvest o quelli di Prairie Wind? Meglio l’alleanza una tantum coi Pearl Jam – che lo considerano, e non sono i soli, il padre putativo del grunge – o quella di vecchissima data coi Crazy Horse?
«Viene facile – ha scritto un paio d’anni fa Riccardo Bertoncelli sul mensile XL, presentandone gli album più significativi – dire che Young non ha mantenuto tutte le sue promesse, che il futuro dalle parti di Harvest, e di Four Way Street, sembrava più radioso. Però poi uno prende la discografia e deve scervellarsi per far tornare i conti; i dischi interessanti sono più di quelli segnalati qui, limitati dallo spazio.»
Lo aveva spiegato lo stesso Young, del resto. Nel documentario Year of the Horse, firmato da Jim Jarmusch nel 1997, c’è un momento in cui lui si rivolge al pubblico e lo dice chiaro e tondo: «E’ tutta una sola canzone». Una lunga, interminabile successione di cose avvenute o immaginate, di luci e di ombre, di affermazioni e di negazioni. Affermazioni che magari non bastano a indirizzare gli eventi; negazioni che non bastano quasi mai a scongiurare i disastri. The Needle and the Damage Done: «Sono arrivato in città e ho perso la mia band. Ho visto l’ago prendere un altro uomo. Andato, andato. Il danno fatto. So che alcuni di voi non capiranno, ma ogni tossico è come un sole che tramonta».
The Needle and the Damage Done. La canzone scritta – inutilmente – per Danny Whitten, il chitarrista dei Crazy Horse che stava sprofondando nelle sabbie mobili della droga. E che sarebbe morto l’anno successivo, anche se non di overdose ma di una fatale miscela di alcol e di valium, dopo il fallimento di un estremo tentativo di coinvolgerlo nella preparazione di Times Fades Away. Danny Whitten: che era un musicista di talento e che è diventato solo un altro nome sull’elenco, sempre più lungo, dei ragazzi stroncati dagli stupefacenti. Un altro numero per le statistiche. Un dramma individuale che si perde rapidamente, che si svaluta, nel fenomeno di massa. E che va ad alimentare lo stereotipo: il rock e la droga vanno di pari passo. La promessa di entrambi è eccitare; l’esito di entrambi è stordire. Allarghi la coscienza (di cosa?) e cancelli la consapevolezza (di tutto).
Alla fine, oltre che una tragedia collettiva, è il più grande favore che si possa fare all’establishment. Tanto di guadagnato, se i ribelli si tolgono di mezzo da soli. Se la repressione diretta – come nel caso dei quattro ragazzi uccisi dalla Guardia Nazionale alla Kent State University il 4 maggio 1970, e poi cantati dallo stesso Neil Young nella celeberrima, durissima Ohio – rimane l’eccezione. Esistono altri strumenti, d’altronde. Non solo le droghe vere e proprie, ma anche degli allucinogeni più subdoli, che rendono altrettanto succubi ma che sono tutt’altro che vietati. E che non hanno nessuna controindicazione apparente. Il successo, la fama, il denaro. I contratti discografici a sei zeri. L’apoteosi dei concerti. La folla adorante sotto il palco. Le ragazzine servizievoli nei camerini. Gli introiti supplementari della pubblicità: una bella canzone, un riff trascinante, e il gioco è fatto. Vendite alle stelle. Royalties alle stelle. Alle star.
«Cosa pensi – gli ha chiesto recentemente David Fricke, di Rolling Stone – quando vedi la musica dei tuoi contemporanei, Jimi Hendrix e gli Who, comparire negli spot? E’ una guerra persa?»
«Non ho perso. Io combattevo solo per me stesso. La mia musica ruota ancora intorno a me e ai miei fan. (...) Alla fine, quando non ci sarò più e il mio pubblico sarà scomparso, tutto ciò che rimarrà è la musica. La gente potrà ascoltarla e ricavarne quello che più desidera.»
Il cerchio si chiude. All’inizio le canzoni sono proprietà di chi le ha scritte. Alla lunga diventano patrimonio pubblico. Parte di una tradizione, di un’identità, che allo stesso tempo si rinnova e si perpetua. Neil Young – lo abbiamo ricordato all’inizio – lo afferma espressamente parlando del country, che è appannaggio della popolazione di razza bianca e di ascendenza europea; ma la sua idea di appartenenza a un ordine superiore trascende qualsiasi comunità umana e si estende all’universo. O, almeno, a quel pezzetto di universo nel quale viviamo.
«Gli indiani di base sono pagani ed è questo in cui anch’io credo: nella natura, che sia stato o meno Dio a crearla. Questa è la mia chiesa: quando vado nella foresta, in un grande prato o nell’acqua. Non ho bisogno di alcun predicatore. Ho identificato tutta la mia vita con i cicli lunari, come gli indiani. Se devo registrare aspetto che ci sia la luna.»
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Secolo d’Italia”.

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