martedì 11 dicembre 2007

Cosa resterà degli anni Ottanta?

Charta Minuta, la rivista mensile della Fondazione Farefuturo, per il numero di dicembre si è trasformata in «una sorta di megafono delle emozioni»: un'antologia di racconti inediti. Come ha scritto Filippo Rossi ne l'editoriale, è «tre cose in una: un esperimento culturale, una sfida intellettuale e la posa in opera di un'immaginaria ma concretissima pietra emozionale. Abbiamo chiesto a una manciata di scrittori, giornalisti o operatori culturali di mandarci un racconto. Richiesta a banda larga, senza vincoli e paletti: solo che la narrazione fosse genericamente "politica" nel senso più generico del termine». Quello che segue è il mio racconto. L'antologia contiene contributi di Giuliano Compagno, Umberto Croppi, Italo Cucci, Luigi De Anna, Domenico De Tullio, Aldo Di Lello, Pierluigi Felli, Ippolito Edmondo Ferrario, Nico Forletta,Ugo Franzolin, Augusto Grandi, Alfio Krancic, Maurizio Macovek, Alessandro Manzo, Gabriele Marconi, Ferdinando Menconi, Errico Passaro, Miro Renzaglia, Filippo Rossi, Annalisa Terranova, Federico Zamboni ed è impreziosita dalle interviste a Giuseppe Culicchia, Federico Moccia e Antonio Pennacchi. La rivista è in distribuzione nelle migliori edicole e librerie italiane. Nei prossimi giorni sarà disponibile integralmente in pdf sul sito della Fondazione.

Cosa resterà degli anni Ottanta?
di Roberto Alfatti Appetiti

Di questi anni maledetti dentro gli occhi tuoi
anni bucati e distratti noi vittime di noi
ora però ci costa il non amarsi più
è un dolore nascosto giù nell’anima
Raf, 1989


Nel 1986 avevo venticinque anni, ero magro come un chiodo e i miei ormoni andavano a mille. Con i coetanei non avevo un gran feeling. Ho sempre disprezzato quel linguaggio intollerabilmente volgare che anima le discussioni tra ragazzi quando si parla di donne: un torbido miscuglio di luoghi comuni, vanterie e ricordi inventati. Sfiga densa come un mattone che non promette nulla di buono. Forse ero semplicemente impreparato a navigare nel mare magnum della mediocrità. E’ un’arte che si impara con il tempo e devo dire che ce l’ho messa tutta. Non masticavo di calcio, che in quegli anni era un po’ come oggi non parlare l’inglese: essere out. Mai imparato la formazione di una squadra di uomini in calzoncini corti. Mai andato allo stadio. E poi non ho fatto il militare. Sarei morto se m’avessero spedito in una camerata, svegliato all’alba e costretto a fare la barba tutti i giorni. Aggiungeteci che ho sempre detestato frequentare discoteche e palestre e che sono allergico a ogni sport. Allora come adesso mi piace starmene per conto mio o con pochi amici selezionati. Non per scomodare Goethe, ma avevamo la pretesa che a tenerci insieme fossero “affinità elettive” prima che elettorali. Sì, eravamo un clan autoreferenziale, una piccola massoneria di iniziati. C’eravamo anche fregiati di nomi altisonanti, presi in prestito dall’opera di Tolkien. Gorlim, Beren e io, Grampasso, nome “mimetico” di Aragorn, capitano dei Dúnedain del nord ed erede al trono di Gondor, mica cazzi. Non sto a spiegarvi cosa rappresentassero questi personaggi letterari, e poi la saga tolkieniana è ormai patrimonio dell’immaginario collettivo più di quanto avremmo mai ritenuto possibile. Dicevamo delle affinità: politicamente eravamo vicini al Msi-dn, anche se – fosse dipeso da noi – del trattino e di quel che seguiva ne avremmo fatto volentieri a meno. Ci appassionavano allo stesso modo i Joy Division e Julius Evola. Vasco Rossi e Drieu La Rochelle. Lucio Battisti e «un paio di tedeschi dall’animo amaro che mi tennero allegro per un po’». Così Charles Bukowski, un altro irregolare che ci piaceva assai, aveva definito Schopenhauer e Nietzsche. Per dirla con quel ragazzaccio di John Fante, «ci fortificavamo con dosi massicce di Nietzsche». Già, trascorrevamo le serate a fare l’esegesi dei nostri scrittori preferiti, anche se il più delle volte finivamo per ubriacarci e ruzzolare sino a un pub di San Lorenzo, quartiere ad alta densità di “rossi” nel quale ci divertivamo a sentirci clandestini.
Ma arrivò presto il momento che tutto questo passò in secondo piano, anzi sparì, si dissolse in un attimo e io mi ritrovai a volteggiare sull’orlo di un precipizio. Conobbi Francesca. Mancavano pochi giorni al mio compleanno, il 25 dicembre. Che da bambino significava ricevere un regalo solo a Natale.
Location: il mio quartier generale, inteso come residenza, era in una traversa di Via dei Durantini, non lontano dalla Sapienza. Cinquanta metri quadrati al sesto piano di un palazzo anonimo. Un regalo di mio padre per i miei diciotto anni. Lui abitava dall’altra parte del Tevere, nella Roma bene, quella su a Nord, dove la borghesia vive senza troppi problemi. Non sopportavo le sue donne, probabilmente ricambiato. Così arrivammo a un accordo: feci la valigia e ci salutammo. Ma torniamo al dicembre del 1986. Una giornata fredda. Ma esistono giornate davvero fredde a Roma? Adesso mi sembra di non ricordarne, ma sono molte le cose che ho dimenticato. E le persone. Prima di uscire mi impomatai di gelatina i capelli, biondi e cortissimi. L’equipaggiamento era il solito: giaccone di pelle nera, jeans Wrangler e Clarks ai piedi. Destinazione università. Non per raggiungere le aule, sorde e grigie, come disse Mussolini riferendosi a ben altre stanze, ma i giardini, pieni di alberi e – soprattutto – ragazze. Avrei speso parte della mattinata per smaltire l’ennesima sbronza. Verso ora di pranzo ritenni di poter tornare a casa. Qualche centinaio di metri saltellando insieme all’autobus sui ciottoli di piazzale del Verano, dondolando a ogni brusca frenata, fermata dopo fermata, come palline di un albero di Natale. Sarà l’incoscienza sbruffona dell’età, ma coltivavo la piacevole sensazione che – come quell’autobus – avrei goduto di una corsia preferenziale. La mia ambizione era rimanere fuori dal traffico. Per essere felici – diceva Albert Camus – non ci si deve occupare troppo del prossimo.
Libero i ricordi, sgualciti e imbrigliati, si prendono giusto il tempo di guardarsi intorno e sgranchirsi le gambe e mi accompagnano sornioni nel tragitto che feci quel giorno. Scesi dal bus, i soliti quattro passi per lasciarmi la Tiburtina alle spalle. Aprii il cancello, entrai in ascensore. La vidi per la prima volta, Francesca. I capelli lunghi e mossi, neri come la pece, un sorriso luminoso quanto disarmante. Sorrideva, sì, proprio a me, mentre quei suoi grandi occhi verdi mi scrutavano divertiti. Improvvisamente allungò una mano e mi sfiorò i capelli dritti sulla fronte, un gesto spontaneo che mi sorprese. Scoppiammo a ridere. Due giorni dopo già dormivamo insieme, diventammo inseparabili. Aveva diciotto anni. Eravamo due bambini ma non lo sapevamo. Studiava Scultura all’Accademia delle Belle Arti, abruzzese, il padre emigrato in Svizzera. Il destino me l’aveva mandata tra le braccia, visto che abitava nel mio stesso pianerottolo. Divideva l’appartamento con altre studentesse. Furono giorni strepitosi, il classico grande amore. Tutto il resto del mondo divenne insignificante. Passavamo le nostre giornate a sfiorarci in silenzio o passeggiando per Villa Borghese. Fu un inverno insolitamente dolce. Ma non ci fu il lieto fine.

Cominciammo ad avere meno tempo per stare insieme. Mentre io continuavo la mia vita inconcludente, che a me sembrava romantica, lei si era messa a studiare. Non aveva le spalle coperte da un padre danaroso, l’Accademia doveva finirla in fretta per poi cercarsi un lavoro. Preoccupazioni che non mi sfioravano. Ci vedevamo la sera tardi. Al mattino, quando lei andava a lezione, rimanevo a letto. A volte mi alzavo e bevevo succo di frutta mescolato al Cointreau, una micidiale porcheria dolciastra che mi intontiva sino a pranzo. Cominciai a essere geloso dei suoi colleghi di studi. Divenni sempre più irrequieto, scostante. Lei se ne accorse, ne era dispiaciuta. Ma le cose non migliorarono. Rimanevamo senza parlare, come estranei. Ci amavamo? Contro questa certezza, come verso le tante altre di cui disponevo, il tempo si accanisce meticoloso, disseminando sulla mia strada dubbi consistenti come sassi. Poi accadde quello che non doveva accadere.

Potrei dire a mia difesa che l’altra mi incoraggiò a prendere un’iniziativa, ma la direzione della storia non cambierebbe di una virgola. Acquieterebbe i miei sensi di colpa, se non li avessi seppelliti da un pezzo. Una sera che Francesca sembrava non tornare mai, accettai di prendere un aperitivo da una delle sue coinquiline. Sapete come sono gli appartamenti abitati da studenti: non ci sono salotti, ogni spazio è sfruttato all’inverosimile dai proprietari per lucrare su ogni singolo metro quadrato. Quindi non sarebbe stato così stravagante sedersi sul letto per chiacchierare e ascoltare musica. Se solo non ci avesse trovato sotto le coperte. Non si mostrò comprensiva. A nulla valsero le mie scuse. Non voleva più vedermi. Stavo male ma finalmente avevo un motivo per ubriacarmi. Il ronzio della Tiburtina si mischiava a quello dei sentimenti infranti, dei cocci che mi giravano in testa, urtando tra loro e facendo fracasso.

Non mi arresi, naturalmente, e misi in atto una strategia scellerata che non fece altro che peggiorare la mia situazione. Era passato un mese da quando mi aveva lasciato. L’estate si avvicinava e con essa la certezza di una separazione irrimediabile. Le undici di sera o giù di lì. Me ne stavo a casa, smanioso e depresso, a sorseggiare l’ennesima birra. Quando a un certo punto sentii un rumore familiare: le portiere dell’ascensore che si spalancavano. La bloccai per un braccio. «Lasciami», sibilò. Esitai, dandole il tempo di sgusciare dietro l’uscio prima che potessi afferrarla di nuovo. Risi, una risata tetra. «Vieni fuori, devo parlarti, apri questa cazzo di porta o la sfondo», gridai. Il pianerottolo si affollò. Un happening di condomini. «Ma cosa fa, la smetta!» mi fece un tizio alto e grasso, mentre la moglie gli si stringeva al braccio. L’amministratore mi si avvicinò con fare ammiccante, bisbigliandomi all’orecchio: «Dai, sono stato giovane anch’io… ma adesso basta». Macchè. Finisco al commissariato di zona. Mio padre non mi rivolgerà la parola per mesi e Francesca cambierà casa, nascondendomi il nuovo recapito.

Luglio 1987. Provai ad intercettarla all’Accademia. Un’imboscata sulla via di Ripetta, a due passi da piazza del Popolo, in un mattino livido. Mi vide, mi venne incontro sarcastica: «Pensi di picchiarmi o posso passare?». Cos’altro aggiungere? Non rimaneva che ritirarsi. Partii, andai a Vienna, da lì a Budapest, dove rimasi tutta l’estate.

Fine settembre. Fu Akar, un comune amico curdo, a confidarmi il suo nuovo indirizzo, non prima di farsi promettere mille volte che non avrei fatto cazzate. Roma è bellissima in autunno, lo è sempre. Buttai giù un cicchetto, non per ubriacarmi, per farmi coraggio. Trovai la casa, una palazzina a tre piani, individuai il citofono, suonai. Rispose una voce di ragazza, scocciata. Lo divenne ancor di più quando le dissi il mio nome. «Ah, sei tu», commentò e non potei fare a meno di notare una punta di disprezzo. Salii le scale a piedi, secondo piano. Me la trovai davanti, Francesca. Non mi sorrise, non mi accarezzò i capelli, mi fece sedere, ironica: «Vuoi un bicchiere di vino?». «No, grazie». Mi vergognavo, le dissi che le volevo bene. Tutto davanti a quella specie di grigia sentinella della fermezza, lo stereotipo dell’amica cozza la cui presenza avrebbe impedito ogni cedimento emotivo. Scese presto il silenzio. «Adesso devo uscire», mi liquidò. «Va bene, mi è piaciuto rivederti», risposi e rimasi lì a seguire la mia frase volteggiare sgraziata nella stanza, rimbalzare sulle pareti della cucina fino a sgonfiarsi come un palloncino bucato. Me lo sarei rimesso in tasca, se avessi potuto, ostentando disinvoltura, magari fischiettando. C’è modo e modo di uscire di scena. Notai la cartolina che le avevo spedito dall’Ungheria appesa nell’atrio, affidata alla buona volontà di una puntina da disegno. C’era un’immagine della fortezza di Buda che si affacciava nell’appartamento. Dietro c’era scritto “ti amo”. Frase che solo il muro poteva leggere. Uscii in strada. Sapevo dove andare. La rosticceria sotto casa. Il fiasco di Chianti mi avrebbe fatto compagnia. Non c’era più rabbia dentro di me, solo dolore. E volevo berne fino all’ultima goccia. Stavolta è finita, pensai, e non avevo torto.

L’inverno porta con sé un set diverso di colori e odori. La sezione, che giammai avremmo chiamato circolo, l’odore inebriante della colla, polvere ovunque. Altri attori, pochi di talento e qualche mestierante di troppo, stuntman, duri-e-puri, millantatori di professione e centinaia di comparse più o meno inconsapevoli, turn over continuo di giovanissimi. Riunioni, manifestazioni, cortei, volantinaggi all’università, comizi improvvisati e, più raramente, scontri. La militanza politica come visione del mondo e prassi quotidiana, impegno e via di fuga. Una routine che mi assorbiva sempre di più, comprimeva vita familiare e affetti, fino a prendersi tutto il tempo, intervallato solo da esami universitari allungati come un elastico che per fortuna non finirà con lo spezzarsi.
Gorlim tra noi è il più schivo. Tanto da scegliersi per nom de plume un personaggio che ha una “parte” piccolissima e tragica nel Silmarillion: Gorlim “l’infelice” è colui che, ingannato da Sauron, per amore della moglie tradisce il suo signore e viene ucciso senza pietà.
Il “mio” Gorlim è un tignoso, uno che c’è sempre e sa cosa dire, senza esagerare. Mica lo so dove trova l’energia per fare quello che fa, è una macchina. Aveva fatto “carriera”, sino a diventare un leaderino del Fronte, stimato da chi conta. Non volle sentire ragioni: «Sarai il nostro candidato al municipio, ti appoggeremo tutti e sarai eletto».

Era passato più di un anno dall’ultima volta che l’avevo vista, mancavano pochi giorni a Natale. Ero in Toscana, dai cugini, ad aspettare l’anno nuovo. Attesa ingannata bevendo birra in quantità industriale. Quando abbassiamo la guardia, i pensieri che pensavamo di aver schiacciato si rialzano baldanzosi, come a volerci sfidare malgrado siano pesti. E se fosse a casa dalla madre per le feste? mi domandai. Feci il suo numero di telefono “abruzzese”. Rispose. La testa mi girava. Non parlavo. Lei ripeté “pronto” una volta, due. «Leonardo, sei tu?». Rimasi in silenzio, smascherato, poi dissi sì. «Come stai?» mi chiese, affettuosa. Sentii che ricominciavo a respirare, lentamente. «Bene, adesso». Parlammo qualche minuto. Si accorse che ero ubriaco e ci scherzò su, indulgente. «E’ stato bello sentirti», mi disse.

«Cosa resterà di quegli anni rampanti dai miti sorridenti, allegri e depressi di follia e lucidità?». Non bisognerebbe ascoltare lo stereo, in macchina. Certe vecchie canzoni accendono la miccia corta dei ricordi. Si fanno beffe della nostra maturità, ci strattonano per il bavero, ci tolgono il fiato, aprono feritoie e ci scrutano dentro. Già, cosa rimarrà? Craxi o il Drive In? Blade Runner o i paninari? Il mundial di Spagna o i funerali di Almirante e Berlinguer? La strage dell’Heysel o la caduta del muro di Berlino? Icone sbiadite eppure tenacemente vive nell’immaginario di tutti noi. «Anni di fango» come li chiamava Montanelli? Forse, ma non per me. Sono passati quindici anni dall’ultima volta in cui ci siamo sentiti. Non ho più vent’anni, ho superato di slancio i trenta per affacciarmi alla soglia dei quaranta. Sono più razionale, almeno credo. Ho avuto altre donne, naturalmente. Il tempo di laurearmi e mi sono ritrovato nello studio legale di un amico di mio padre. La politica continua a riempire le mie giornate, in contenuti e forme diverse. Dimenticavo: è da tanto tempo che chiamo Gorlim e Beren con i loro nomi “borghesi”: Nino e Gianni.

Una sera d’inverno del 2001. Mia moglie è in settimana bianca con una coppia di amici. «Andate voi, vi raggiungo», l’avevo rassicurata. Gli impegni istituzionali e la mia incrollabile indolenza mi trattengono a Roma, difficile dire se riuscirò a liberarmi. Se lo vorrò. Era nata come una passione, la politica. E a volte sembra solo un lavoro, mi dico cercando riparo dalla pioggia leggera ma insistente in una libreria del centro. Mi aspettano in provincia, una trentina di chilometri fuori dal raccordo. «Ci saranno almeno cento persone. Sono voti sicuri, gente che vuole parlare con te», cerca di scuotermi al telefono Nino, sentendomi distaccato. «Passo a prenderti a casa?», propone. «No, ho dei giri da fare prima, vengo con l’autista». «L’autista? Pensi sia opportuno per una cena di partito?», m’interroga. E già so che sta misurando l’effetto che potrebbe fare sulla base il mio arrivo in auto blu, i pro e i contro, la suggestione del potere e il fastidio per il privilegio. Lui è da sempre il contabile della mia immagine politica. Torno a casa, non sono ancora le otto ma è buio pesto. La casa è silenziosa: il vantaggio di vivere in una zona elegante. Dovrei radermi, scegliere cosa indossare domattina per l’intervista alla Rai. Non ho voglia di stringere mani, distribuire sorrisi, assumere impegni che mi inseguiranno come cani dolenti e arrabbiati. Mi siedo in poltrona, accarezzo la scatola dei sigari. Sono così belli e compatti che quasi mi dispiace fumarli. Apro l’elenco telefonico, cerco il suo nome: c’è. Sorrido. L’abbigliamento è troppo formale. Frettolosamente indosso jeans, camicia e maglione senza preoccuparmi degli accostamenti, è competenza che ho delegato a mia moglie. Afferro il Barbour e vado.
Trovare la casa è facile. Lo è meno trovare il coraggio per annunciarmi. Il telefonino continua a squillare. E’ Nino. Poi Gianni. Provano anche a nascondere il numero, l’amicizia sa essere spietata. Non rispondo, non saprei cosa dire. Gli mando un sms: «problemi… domani vi dico… giustificatemi». Risponde Nino: «vaffanculo, la prossima volta a chi li chiediamo i voti?».
Come reagirà, mi chiedo. Non potrei sopportare l’indifferenza. E se non mi riconoscesse subito? Sarà ancora bella? Sarà sposata? E se ad aprirmi venisse il marito, mi presento come un vecchio amico? Cammino lentamente in compagnia delle mie perplessità, confido di seminarle, si stancheranno. Vedo la luce che si accende nell’ingresso del palazzo, qualcuno sta rientrando. Bene, accelero il passo ed entro. Una persona apre la porta dell’ascensore, si ferma ad aspettarmi. Quando si volta, la riconosco. E’ lei, sempre bella. Una donna a trent’anni è al culmine della bellezza. Ci sorridiamo. Siamo nuovamente soli in un ascensore. Mi abbraccia, ridiamo. «Quando tempo», diciamo quasi in coro. Entriamo in casa, non c’è nessuno e tiro un sospiro di sollievo che libera vigliaccheria e presunzione. «Aspettami qua», mi dice indicandomi il tinello. «Prendi da bere, c’è del cognac nel mobile bar». «No, meglio un caffè». «Non dirmi che sei diventato una persona seria?». «Proprio no», le rispondo alzando il tono della voce perché la sento armeggiare in un’altra stanza, i passi che si avvicinano. Mi volto a guardarla. «Come sei bella, Francesca…». «E tu sei sempre quel ragazzo troppo sicuro di sé...». Abbasso gli occhi, ho perso molta della fiducia che avevo in me stesso, ma non glielo dico. Parliamo un po’, insegna storia dell’arte in un liceo romano. Quando inizio a raccontarle di me, mi blocca con un cenno della mano. «So tutto, Akar mi tiene informata» si giustifica leggermente imbarazzata. Non so cosa comprenda quel tutto, non vedo Akar da almeno dieci anni. Preferisco non indagare. Mi guarda, dice: «Peccato, rovinasti tutto, ti amavo davvero». «Mi amavi?», protesto debolmente. «Con tutta me stessa, sei stato il primo e saresti stato anche l’ultimo, se solo non avessi rovinato tutto». Ci sfioriamo le mani. Ci diamo un bacio leggero sulla bocca. «Aspetto una persona» dice. Poi aggiunge: «Ne aspetto due, veramente», e si tocca la pancia, sorridendo. C’è qualcosa di misterioso e di meraviglioso nella donna che coltiva una vita dentro di sé, un coraggio e una determinazione tutte femminili nell’affrontare il futuro.
Usciamo in strada, Roma è sempre uguale a se stessa, traffico congestionato, clacson, voci, rumori. Non è una città, è una poesia. Persino i barboni qui conservano una dignitosa aria bohémienne, sembrano avere uno scopo, aderiscono alla scenografia.
Camminiamo fianco a fianco, come se ci fossimo lasciati ieri, senza parlare. Sembra altissima e io basso: la brutta abitudine di camminare un po’ curvo, ripiegato su me stesso.
«Ti accompagno alla macchina», mi dice. Passo davanti alla berlina, all’autista incerto. Lo gelo con lo sguardo, scuotendo appena la testa. Facciamo un’altra ventina di passi e mi avvicino a una vecchia Fiat Tipo dalla targa anonima, facendo finta che sia la mia. Non mi fa domande. Non le faccio domande. Ci abbracciamo.

Non l’ho più cercata. Non mi ha più cercato.

2 commenti:

Francesco Panella ha detto...

Preferisco Evola e Ian Curtis a Raf. L'articolo é strepitoso.
Come stai Rob ? Ho saputo della tragica notizia, ma non ho più il tuo numero di telefono, l'ho chiesto a tua moglie ma non lo ricordava. Spero ora tu sia più sereno, se capiti a Roma chiama. Un abbraccio.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie Fra'. Sì, adesso sto abbastanza bene. Capito spesso a Roma negli ultimi tempi, ma sempre di corsa.
Mi faccio sentire. A presto.